lunedì 30 luglio 2012

Le scarpe di Pelé

Avevo un amico d’infanzia che sognava di diventare un grande calciatore. Però a giocare non era un granché, così pensò bene di farsi regalare le scarpe di Pelé. Non fu una grande idea, perché lui restò un brocco con le scarpe costose, mentre Pelé giocava divinamente anche a piedi nudi sull'asfalto.

Mi perdonerete questo flashback poco gastronomico, ma è un ricordo che mi torna spesso alla mente quando giro per cucine e laboratori (oggi, poi, vanno di moda i foodlab…). L’ultima volta è accaduto poche settimane fa, quando un cuoco mediocre mi mostrava con orgoglio un campionario d’attrezzature assolutamente spropositato per i suoi scopi: dagli ultimi ritrovati della tecnologia culinaria, ad alcuni strumenti scientifici che voleva usare a tutti i costi, senza capire bene a cosa servissero realmente. Mentre, fra me e me, sorridevo di tanta ingenuità, il pensiero andava al mio amico Fulvio Pierangelini, che ho visto cucinare piatti divini con una padella accanto al camino, o tra i modesti fornelli di casa mia.

La realtà è che Fulvio conosce alla perfezione quei complessi processi di cottura e le mille sfumature della fiamma d’un camino, mentre il cuoco mediocre cerca di sopperire con le macchine alla sua scarsa conoscenza. Il primo, anche se lo nega ostinatamente, è a suo modo uno scienziato; il secondo, che vorrebbe essere un cuoco scientifico, è tutt’al più un tecnologo mal riuscito, le cui conoscenze nascono e muoiono nel mondo ristretto dei suoi macchinari.

La scienza, infatti, è conoscenza approfondita dei fenomeni, delle cause che li producono, delle relazioni sottili che tra loro intercorrono. La tecnologia è l’applicazione di questa conoscenza a situazioni particolari, con finalità specifiche. Entrambe non sono in sé né buone né cattive, ma entrambe possono essere usate bene o male: possono produrre meraviglie o portare ad eccessi ridicoli. 

Entrambe si rendono ridicole, quando credono ciecamente in se stesse. La scienza lo fa ogni volta che, anziché riconoscere i suoi limiti, si crede in grado di spiegare il mondo intero; ogni volta che si crogiola nelle sue teorie perdendo di vista la realtà. 

La tecnologia si rende ridicola, quando si illude di risolvere con le macchine ogni problema, trascurando il ruolo cruciale dell’uomo che le usa. 

Questo discorso, ovviamente, va ben oltre il mondo della cucina. Le stesse considerazioni mi vengono in mente quando qualche collega mi mostra con orgoglio un’apparecchiatura scientifica costosissima e complessa, con cui sogna di fare grandi scoperte. In realtà, nella maggioranza dei casi, quell'apparecchiatura lo legherà per molto tempo ad un lavoro di routine, limitando la sua libertà e la sua fantasia, perché i macchinari, quanto più sono specifici e raffinati, tanto più vincolano il campo d‘azione di chi li usa. Molte scoperte scientifiche, per contro, sono state realizzate con apparecchiature di fortuna, arrangiate alla bell'e meglio da sperimentatori che avevano magari scarsi mezzi a disposizione, ma una grande ricchezza di idee e perfetta conoscenza di ciò che stavano facendo. 

La verità è che mentre è possibile fare scienza senza tecnologia, la tecnologia non può esistere senza scienza. La macchina, senza l’uomo che la conosce a fondo, la domina, la piega alla sua volontà, diventa una scatola stupida e vuota, come un computer senza software e senza programmatore. Quando, addirittura, non diventa pericolosa.

Qualche anno fa, un cuoco pseudo-scientifico, dopo aver assistito ad una mia dimostrazione sulla preparazione di gelati con l’azoto liquido, ebbe la geniale idea di organizzare una dimostrazione simile, utilizzando un turbo miscelatore a tenuta stagna, prodotto da una ditta a cui faceva consulenza. La mia dimostrazione sfruttava solo strumenti primordiali, una pentola e una frusta, per cui non c’era stata l’occasione di parlare del poderoso aumento di volume dell’azoto al passaggio dallo stato liquido allo stato gassoso. Ma, nel miscelatore a tenuta stagna, quella proprietà era tutt’altro che trascurabile. Tanto poco trascurabile che, dopo pochi secondi di funzionamento, la pressione interna arrivò a far saltare le valvole di sicurezza, riempiendo l’immensa sala con una pioggia di melma verdastra. La colpa non era ovviamente della macchina, ma dell’ignoranza del suo utilizzatore. 

Non penso che il gelato all'azoto si debba fare necessariamente a mano, anzi: proprio in quegli anni (prima della patetica polemica televisiva sulla cucina molecolare) avevo messo a punto un prototipo di apparecchiatura, di grande semplicità, in grado di produrre fino a cinque chili di gelato in tempi brevissimi. L’avevo fatto assecondando le richieste di alcuni gelatai sperimentatori che lamentavano l’impossibilità di realizzare a mano quantità consistenti di gelato. In questo senso, la macchina ha una ragione d’essere e una funzione insostituibile: un po’ come il cric idraulico che permette ad una sola persona di sollevare un’automobile. Ma, soprattutto, è una macchina proporzionata al suo scopo: nessun dettaglio è inessenziale o superfluo.

La scienza, da sempre, insegna a seguire la strada più semplice ed elegante per arrivare ad un risultato, a non utilizzare mezzi eccessivi per fini limitati. E’ un insegnamento che si potrebbe estendere con profitto anche alle tecniche di cucina: quante volte siamo tentati di utilizzare metodologie estremamente complesse per arrivare a prodotti che si potrebbero ottenere con mezzi più modesti! Mi ricordo ancora di quanto tempo mi ci volle per convincere uno chef con cui collaboravo a non chiedermi di procurargli un laser per sciogliere un po’ di cioccolato…

Una divulgazione seria e capillare della scienza e del suo metodo sarebbe la vera soluzione, l’unico modo possibile di riequilibrare il rapporto tra la tecnologia ed i suoi fruitori. La strada, però, non è facile, perché le macchine si comprano, ma la scienza non si trova in vendita. Le macchine sono disponibili rapidamente, mentre la conoscenza richiede tempo, pazienza e dedizione: doti, che, non a caso, sono fondamentali anche in cucina, ma poco popolari nell'immaginario contemporaneo.

L’illusione di arrivare a grandi traguardi senza fatica, di procurarsi la bacchetta magica che risolve ogni problema, è insieme il maggior pericolo della mentalità tecnologica e il peggior nemico dell’arte. Ma, se la cucina è un’arte (e ne sono convinto), saranno i risultati stessi a far giustizia di tutto ciò che ad essa non giova. Saranno gli stessi cuochi a capire quando le macchine sono davvero funzionali al “buono da mangiare”. E, forse, vedremo in giro meno scarpe di Pelé e più ragazzini che si divertono a giocare in strada a piedi nudi.

 


Pelé. Non sono le scarpe che fanno il campione...

domenica 22 luglio 2012

I fluidi non newtoniani e l’arte di leggere i fondi di caffè


Nell’estate di diciannove anni fa, mi ritrovavo a scorrazzare tra il Bosforo e la Cappadocia con il mio amico e collega Igor. Viaggiavamo a bordo di un’auto bianca, noleggiata in nero in un’equivoca bottega nella zona di Topkapı, in compagnia di un mare di cianfrusaglie e ricordini, e di un dizionarietto di turco, che si rivelò vitale quando si ruppe il motore in Anatolia Centrale.

Tra gli acquisti che ci accompagnarono nel viaggio, c’era un ibrik,  bricchetto di rame dal manico lungo, che ancora conservo con cura. Serviva (e serve) a preparare il kahve,  quello che noi chiamiamo caffè turco. Ci eravamo prima assuefatti e poi innamorati di quella bevanda. Trovare un espresso era pura utopia. C’erano solo due possibilità: il kahve o il neskahve. Il secondo, come si può intuire, era il caffè liofilizzato, e lo bevevano solo gli stranieri. Noi, dopo giorni e giorni di scuola e collegio insieme agli studenti locali, non ci sentivamo più stranieri, e avevamo anche imparato a prepararlo, il kahve. La polvere che si usa è macinata finissima, impalpabile. Si mette nel bricco, insieme all’acqua e allo zucchero, e si porta a ebollizione, sul fuoco, una prima volta. Al primo bollore, si allontana dalla fiamma (il manico lungo è essenziale) e lo si lascia placare. Si ripete l’operazione altre due volte, poi si versa nella tazzina. Non si filtra, ma si aspetta che la polvere decanti sul fondo. A quel punto si può bere, avendo l’accortezza di non ingurgitare il deposito, ovvero il kahve telvesi,  il fondo di caffè.

All’inizio, lo lasciavamo nella tazza senza curarcene. Poi, in una magica serata esotica, seduti all’aperto a un bar di Ortaköy, una ragazza di Istanbul ci insegnò a leggere i fondi di caffè.

La caffeomanzia, antica arte divinatoria che la fanciulla aveva imparato dalla nonna, comporta innanzitutto la creazione di strane figure marroni sulle pareti interne della tazza. Chi vuole conoscere il suo futuro inizia appoggiando sulla tazza il piattino rovesciato. Si concentra e, tenendolo stretto tra le dita, fa ruotare il tutto tre volte. Poi, quando si sente pronto, lo ribalta. Aspetta che il kahve telvesi sia completamente sceso (lo verifica tastando la base della tazza, che deve risultare fredda),  rovescia di nuovo la sola tazzina, e la contempla. Sulle pareti, il fondo, colando, ha disegnato forme curiose, ogni volta diverse, che vanno lette e interpretate.

Passammo le nostre serate ottomane divertendoci a indovinare il futuro. Non avevamo ancora trent’anni, né una famiglia, né un posto fisso… Ma l’aspetto più affascinante del gioco, per noi, era il processo di formazione di quelle figure strane.  Poco meno di due anni prima, De Gennes aveva vinto il Nobel rivelando al mondo i segreti della materia soffice. Il kahve telvesi era materia soffice. Una sospensione densa, per l’esattezza. E una sospensione densa è un caso particolare di fluido non newtoniano.

Cosa c’entri Isaac Newton con i fondi di caffè può non essere ovvio a tutti. Tra le varie leggi che portano il suo nome, ce n’è una che riguarda i fluidi. Questa legge stabilisce la proporzionalità diretta tra lo sforzo applicato e lo scorrimento. Per questo motivo, i fluidi che la seguono si chiamano newtoniani. L’acqua e l’olio, per intenderci, sono esempi quotidiani di fluidi newtoniani. I fondi di caffè, no. Considerato che, se mi state leggendo in italiano, è abbastanza improbabile che abbiate sottomano una polvere di caffè turco, per capire il meccanismo vi propongo di sostituirla con un qualunque amido alimentare (fecola di patate, amido di mais, di frumento, di riso, …).

Gli amidi condividono con la polvere di kahve le due proprietà fondamentali che ci interessano: la finezza e l’insolubilità in acqua. Una polvere insolubile, dispersa in un liquido, da origine ad una sospensione. Parliamo di sospensione densa quando la distanza media tra i granelli è più piccola della loro dimensione. In queste condizioni, il movimento di un granello all’interno del liquido è fortemente ostacolato dalla presenza degli altri: in poche parole, non ha spazio a sufficienza per passare e va a sbattere. Di conseguenza, la sospensione incontra una forte resistenza allo scorrimento.

Volete verificarlo di persona? Mettete qualche cucchiaio di amido in un bicchiere d’acqua, lasciatelo decantare sul fondo, e versate via l’acqua in eccesso.  Il fondo che resta ha una consistenza cremosa e poco fluida, che ricorda una salsa.  Fin qui, niente di strano. Provate ora a mescolare la pseudosalsa con un cucchiaino. Se lo girate lentamente, tutto ok. Se siete troppo veloci, però, vi trascinate l’intero bicchiere. Non siete soddisfatti? Fate in modo di riempire di pseudosalsa l’intero bicchiere ed immergetevi fino in fondo il cucchiaino. Se lo estraete lentamente, quello esce. Se lo tirate troppo velocemente, si solleva il bicchiere. Prendete infine la pseudosalsa tra le mani ed iniziate ad impastare. Sembra proprio una pasta. Ma, appena vi fermate, si squaglia e cola via. Bene, a questo punto avete sperimentato a sufficienza per capire che la sospensione densa, a differenza dei fluidi newtoniani, più la forzate e meno scorre. Un fluido non newtoniano, con questa specifica proprietà, viene chiamato dilatante. Ne esistono anche con comportamento esattamente opposto: si chiamano pseudoplastici, e l’esempio più tipico è il ketchup. Ma i fondi di caffè sono dilatanti, così come la tahina, gustosa sospensione, in olio, di polvere di sesamo tostato…

Non è difficile capire il comportamento dei fluidi dilatanti. Se lo sforzo applicato non è eccessivo, granelli e liquido scorrono insieme.  Ma quando si fa troppo intenso, l’acqua viene come spremuta via, e i granelli, lasciati all’asciutto, si compattano e formano un ammasso duro e resistente.

Ora potete capire anche cosa succede quando la nostra sospensione inizia a scendere sui bordi della tazza. Innanzitutto, le rotazioni e il capovolgimento hanno prodotto delle disuniformità importanti nel fondo di caffè. La sospensione in alcuni punti è salita di più, in altri di meno. Poi, ovviamente, lo scorrimento è iniziato prima sul lato interno del movimento di capovolgimento.  Tutto ciò fa sì che il fondo cominci a scendere in modo decisamente disomogeneo: in alcuni punti è più rapido, in altri non scorre proprio. Ma la differenza di velocità provoca anche differenza di densità della polvere in acqua e, dove la densità è più alta, possono avvenire dei compattamenti simili a quelli che abbiamo visto con gli amidi. Quando l’acqua non è sufficiente, la polvere si blocca e rimane attaccata alla parete. L’acqua liberata da un compattamento, a sua volta, scendendo, può andare a sbloccarne un altro. Alla fine, quando quasi tutta l’acqua è sul piattino insieme alla polvere scesa, la polvere residua, sulle pareti, forma figure varie, complesse e imprevedibili: il risultato di un moto caotico.

Se non vi accontentate della descrizione, potete sperimentare di persona. Dovete semplicemente procurarvi una polvere di caffè finissima e una tazzina trasparente o un bicchierino. Se il caffè manca, potete provare a simularlo con un amido. Il risultato non è lo stesso, perché questi moti caotici sono molto sensibili ai dettagli, ma imparerete sempre qualcosa.

Se poi volete vedere cosa succede quando riempiamo di acqua e amido di mais una vasca da bagno, guardate semplicemente qui: è una trasmissione televisiva dell’anno scorso, in cui ci siamo divertiti un mondo. I retroscena della registrazione, poi, sono ancora più divertenti. Ma di questi, forse, parleremo un’altra volta…


P.S. Se mi volete spedire le foto dei vostri esperimenti con i fondi di caffè o altri fluidi dilatanti, possiamo provare a farne uno studio sistematico!


                                  








domenica 15 luglio 2012

Forza Quico!


L'altro giorno è bruciata la fabbrica di Quico.

Mentre nelle capitale il solito ministro borioso emanava il solito decreto idiota, mentre all'università le solite facce annoiate partecipavano alla solita riunione inutile, sull'altra sponda del mare in poche ore si erano trasformati in cenere gli anni di sogni, di lavoro, di lotte e di passione di un uomo eccezionale.

Francesc Sosa, Quico per gli amici, è un catalano purosangue. Un folletto barbuto lontano mille miglia dallo stereotipo di imprenditore. In un mondo fasullo, fatto di abiti griffati e auto di lusso, lui veste jeans e maglietta e vola low-cost. In un mondo che vive di immagine e apparenze, lui produce materia e sostanza. In un mondo di attori, presentatori e politici che parlano come fossero cuochi, e di cuochi che parlano di filosofia, Quico, che in filosofia è laureato (tesi sulle religioni orientali), vive per i suoi prodotti.

Chiunque abbia vissuto la fantastica avventura degli ultimi quindici anni di cucina creativa, conosce il marchio Sosa, esattamente come conosce i nomi di Ferran Adrià, Heston Blumenthal, René Redzepi. Dalla lecitina di soia ai funghi liofilizzati, dalle alghe agli aromi, dall’alginato alle più fini bacche di vaniglia del mondo, da lui c’è tutto quello che puoi sognare. E spesso trovi anche quello che nemmeno pensavi: il suo catalogo è fonte di ispirazione costante per il gastronomo scientifico e il suo laboratorio.

Se mi chiedete quando e dove ho conosciuto Quico, sinceramente non vi so rispondere. Ragionevolmente all’inizio degli anni duemila, l’epoca ruggente della cucina molecolare. Ma mi sembra di conoscerlo da sempre. Ragionevolmente in Spagna o in Italia. Ma Quico è ubiquo, saltella qua e là per il mondo, a cercare ingredienti, a imparare da tutti, a produrre nuove idee e a presentare quello che fa. Mentre assillanti venditori ti assaltano con il loro marketing aggressivo, Quico ti ascolta, ti chiede, ti mostra. E solo quando sei tu a chiedere svuota il sacco e ti svela le sue creazioni e la sua passione. Mentre una schiera di inutili parassiti avvelena la società con un'invenzione perversa che chiamano finanza, Quico lavora. Mentre mille ciarlatani ti vendono il nulla a peso d'oro, Quico ti vende i suoi prodotti, e al prezzo più onesto che può.

Mi ricordo come gli brillavano gli occhi quando mi raccontava di aver finalmente comprato un liofilizzatore. Ferran aveva lanciato l’idea dell’ingrediente liofilizzato nella grande cucina, ma in pochissimi potevano permettersi quella macchina costosa. Lui l’aveva comprata, la usava, e vendeva il prodotto ai cuochi. Il vantaggio, per questi ultimi, non era solo economico. Non basta comprare una macchina. Bisogna anche saperla usare, e bene. Quanto tempo ha un cuoco per imparare? Adesso va di moda il rotavapor, tutti lo vogliono, tanti lo comprano. Ma distillare a bassa pressione non è più facile che a pressione atmosferica. E si  sa bene che per imparare a fare una buona grappa ci vogliono anni… Non è meglio comprarla da chi la sa fare? Non è meglio comprare la frutta liofilizzata da Quico?

Quico non è, come sta scritto su un famoso blog internazionale, “the man behind the Sosa company”. Quico è un amico, che ogni anno invita gli amici alla matança del porc, nella sua fattoria, il Mas Mirambell. Quico è uno studioso appassionato, che se lo incontri a una fiera si dimentica di tutto e di tutti per mostrati il suo manoscritto sull’estetica della cucina contemporanea.

Quico è una pietra angolare della rivoluzione gastronomica spagnola. Quico ha scritto un pezzo di storia della cucina. Quico ha appena detto addio tra le lacrime alla fabbrica di Castelltercol, ma domani, lunedì, ricomincia da zero l’attività della nuova Sosa a Moià. Quico è forte. Ce la farà.

Forza Quico!!!



Quico Sosa
www.sosa.cat

venerdì 6 luglio 2012

La Radler, o della non commutatività gastronomica

 Dall’alta valle dell’Adige ai laghetti della Baviera, nelle giornate soleggiate d’estate le panche di rifugi, malghe e trattorie si popolano di turisti accaldati. E, sui tavoloni di legno, fanno la loro comparsa scintillanti boccali pieni di una bevanda gialla dorata, che un osservatore inesperto potrebbe confondere con una varietà di birra. Ma, alla birra, nei boccali è mescolata la limonata, ed insieme fanno una cosa sola, ovvero la Radler.

 La Radler o il Radler? – innanzitutto.  La scelta del genere è piuttosto arbitraria. In tedesco la bevanda è di genere neutro, das Radler. Il maschile, der Radler, significa ciclista, mentre il femminile, die Radler,  sta ad indicare il  pantaloncino da ciclista. I miei amici sudtirolesi, che in queste questioni fanno testo, sostengono che se il neutro das Bier in italiano si traduce “la birra”, allora a ragione das Radler deve diventare la Radler. E lasciamo pure la maiuscola, perché il termine è tedesco, e in tedesco i sostantivi vogliono tutti la maiuscola!

Non tutti sanno perché questa bibita leggera e rinfrescante viene associata alle due ruote (anche in qualche zona d’Italia, del resto, viene denominata bici o bicicletta). La storia, o leggenda, vuole che la sua invenzione risalga a un caldissimo sabato del luglio 1922, ovviamente in Baviera. Per la precisione siamo a Oberhaching, un villaggio a una quindicina di chilometri a sud di Monaco, dove l’oste Franz Xaver Kugler gestisce un Biergarten che, in seguito, e fino ai nostri giorni, si chiamerà in suo onore Kugler Alm. Oberhaching è collegato alla città da una deliziosa stradina pianeggiante che si snoda nell’ombra di un bosco, la Perlacher Forst, ed è perfetta per essere percorsa in bicicletta. Le due ruote, all’epoca, erano estremamente popolari tra la borghesia impoverita dalla guerra, e la pedalata fuori porta costituiva il passatempo prediletto nei giorni di festa e di bel tempo. Si narra che quel sabato il locale di Kugler, che oggi nel giardino dispone di oltre 2000 coperti, fosse letteralmente invaso dai ciclisti, tanto da mettere a rischio le pur abbondanti scorte di birra. L’oste, dunque, avrebbe escogitato il geniale stratagemma: non potendo tramutare l’acqua in birra, mischiò in parti uguali birra e limonata, visto che quest’ultima non gli mancava. Va detto che la birra era certamente una leggerissima e limpida lager, e che la limonata era gassata, com’era di moda a partire dalla fine dell’ottocento. Il risultato, a quanto pare, fu un successo strepitoso. L’invenzione di Kugler si diffuse rapidamente e divenne popolare con quel nome, che ancora oggi ricorda gli assetati ciclisti bavaresi di 80 anni fa.

Oggi, a dire il vero, gli esegeti pignoli contestano questa storia. Esiste qualche documento che attesta la preparazione di una miscela di birra e limonata già all’inizio del secolo. Ma pensare che il tutto sia pura invenzione mi pare eccessivo. Non so se Kugler abbia ideato la bevanda da solo, o se conoscesse quei precedenti. Sta di fatto che, verosimilmente, fu lui ad intuirne le potenzialità di successo  nella situazione giusta, e a popolarizzarla. D’altra parte, le invenzioni spesso nascono per caso, e chi capisce e diffonde la novità è probabilmente molto più meritevole dell’inventore stesso…

Stavo disquisendo di tutto questo pochi giorni fa, con un’allegra compagnia, seduto ad uno dei classici tavoloni di legno di una malga alpina. Il gestore preparava le Radler, versando, come di consueto, prima la limonata e poi la birra. Trovai divertente sottolineare come l’ordine di quelle operazioni fosse fondamentale. Non è la stessa cosa versare prima l’una o l’altra. Se aggiungiamo la limonata in un bicchiere già pieno a metà di birra, l’anidride carbonica che si sprigiona dalla bevanda gassata che cade sul fondo, nel risalire il boccale, viene intrappolata dalle proteine emulsionanti della birra, generando una schiuma ai limiti dell’incontrollabile. Viceversa, aggiungere birra ad una limonata, che si è già placata liberando il gas in eccesso, non produce effetti vistosi. Come si dice in linguaggio matematico, le due operazioni non commutano. E questa non commutatività è assai frequente in cucina. Avete mai provato a preparare una maionese aggiungendo un tuorlo ad una tazza d’olio? La ragione della non commutatività, solitamente, è dovuta alla metastabilità delle strutture che si ottengono. In parole povere, al fatto che il risultato che si ottiene è stabile solo per poco tempo, per poi evolvere verso uno stato stabile, e spesso non particolarmente gradevole al palato, che si definisce stato di equilibrio. Avete presente l’esempio del cioccolato vecchio?

Memore di queste nozioni accademiche, Emilio, un chimico che sedeva al tavolone, mi obbietta che, alla fine, il risultato è sempre quello ed è inutile stare a seguire le tradizioni rituali.  Siccome detesto il nozionismo accademico, lo sfido. Facciamo la prova, chi perde paga per tutto il tavolo.

Facciamo portare una bottiglia di birra, una di limonata e due bicchieri. Nel primo seguo la procedura classica. Bella schiuma controllabile e niente più. Nel secondo verso la birra, sulla parete, stando ben attento a non fare schiuma.  Invito Emilio a versare la limonata dall’alto. Quello a mo’ di sfida si alza in piedi e gira la bottiglietta di 180 gradi. La schiuma esplode nel boccale e sale, sale… Sale fino a superare l’orlo e, traboccando, si riversa sul tavolo di legno, disperdendosi tra le venature.

-Vedi? Il liquido versato non tornerà mai più nel bicchiere, nemmeno se aspetti un secolo. Si chiama secondo principio della termodinamica. Questo significa che le due operazioni non commutano. In altre parole, questo significa che devi pagare!


Franz Xaver Kugler



                  La Kugler Alm oggi




La mia Radler vincente

L'ingresso della Kugler Alm






Note
  1.  Bevande simili alla Radler sono diffuse anche in altre nazioni:   panaché in Francia, shandy nei paesi anglosassoni, …
  2.  In Austria e Germania si può comprare la Radler già pronta in bottiglia o lattina. Ma non è la stessa cosa…
  3. A chi, come me, è cresciuto a pane e cantautori, risuonerà senz'altro nella mente il celebre incipit gucciniano: "La ragazza dietro al banco mescolava birra chiara e Seven Up"...