giovedì 30 agosto 2012

Florian, l'artista del Breatl


Die Tiroler sind lustig,
die Tiroler sind froh;
sie verkaufen ihr Bettchen
und schlafen auf Stroh

Le parole della canzoncina, che cantavamo da bambini, da più di due secoli dipingono lo stereotipo del tirolese, sempre sorridente e pronto a far festa. Non so se un tempo tutti fossero davvero così. Di certo, ho conosciuto anche tirolesi tristi e depressi. Ma, se vedi Florian, pensi subito a quei versi e ti convinci che sono veri. Perché Florian sorride sempre.

Appuntamento alla malga, agli sgoccioli delle vacanze.

-        - Vieni all’ultimo, così ci sono pochi turisti e riusciamo a parlare.

Florian, con l’accento sulla o, alla tedesca, abita a pochi passi da me. Ma non lo vedo quasi mai, perché lavora in un’altra valle. Lavora in un panificio e, nel giorno di riposo, si diverte e arrotonda preparando il Breatl alla malga. Lo prepara all’antica, come si faceva quando lassù non sapevano cos’erano asfalto ed elettricità, ed è così buono che la gente sale e fa la fila per averne uno.

Lo trovo con le mani in pasta. Ha appena messo la ‘madre’ nella cassa di legno. Mi saluta e, ridendo, porge la mano ricoperta di acqua e farina di segale. E’ contento davvero, glielo leggi negli occhi. E’ contento di poter fare il lavoro che gli piace e che ha sempre sognato. E questa è felicità.

Siamo nel cortile della malga. A pochi metri di distanza, una turista in bikini si abbronza sulla sdraio, tenendo tra le mani “Cinquanta sfumature di grigio”. Mi metto a ridere anch’io. I gusti sono gusti, per carità. Ma, da quando mi è capitata tra le mani la parodia di Ottavio Cappellani, ogni volta che vedo un romanzo della James, non riesco a trattenermi.

La madre, fatta solo da acqua e farina di segale, è stata preparata pochi giorni prima. Florian versa acqua in abbondanza, poi ancora farina di segale e poca farina di grano. Aggiunge, solo ora, il sale. Poi le erbe: trigonella, coriandolo, finocchio. Mescola con una mano, saggia la consistenza e ordina al suo aiutante “Noch zwoamal!”. E’ dialetto, e significa che deve aggiungere altre due palettate di farina di segale. Continua a rimescolare, più che impastare, con le mani, finché la cremosità non lo soddisfa. La prova tracciando una X sulla superficie dell’impasto: il segno resta. Ok, ci siamo. Chiude la cassa e lascia che il lievito faccia il suo lavoro.

-       -   Florian, e le dosi? La temperatura? Il pH??
-       -   A occhio! Io fiuto, tocco, sento.

Penso ai trattati di panificazione, pieni di numeri grafici e tabelle. Ma, in fondo, il pane si faceva prima che Galileo inventasse il termometro e prima che nelle malghe arrivassero le bilance. Chiedergli di pesare sarebbe come chiedere a un pittore di miscelare i colori usando uno spettrometro. Florian impasta senza pesi e misure, così come io cammino senza risolvere le equazioni del moto delle mie gambe. Non per questo cado. Anziché calcolare il passo, lo correggo e lo aggiusto ad ogni istante per cercare l’equilibrio. Così fa Florian con la sua miscela. Anche questa è scienza. Prevedere tutto partendo dalle condizioni iniziali è illusione ottocentesca. Più moderno è l’algoritmo di computer, che itera una procedura finché la condizione finale desiderata non è soddisfatta.

Mentre il pane nero lievita, considero che ogni gesto, nel rito di Florian, ha una ragione. La procedura sembra agli antipodi della panificazione da manuale. Mi cade il mito delle madri rinfrescate e conservate per anni e anni. –Se la tieni troppo prende aromi cattivi.- E poi è senza sale. L’impasto è debole, il glutine si forma in misura minima. Prima di tutto perché la farina di segale contiene poche proteine adeguate alla sua formazione, tanto che, per tenere insieme il tutto, bisogna comunque aggiungere una piccola percentuale di farina di grano. E, poi, perché la lavorazione della massa è breve e senza forti pressioni. Tutto ha una ragione. Con buona pace del mio amico Hervé, la tradizione non nasce da sogni e miti, ma dalla sperimentazione quotidiana.

Per capire il Breatl bisogna considerare che, un tempo, nelle malghe lo si preparava solo due volte l’anno. Le pagnotte, larghe e piatte, si indurivano e venivano conservate per mesi nelle rastrelliere di legno. Per mangiarle morbide, se lo si desiderava, bastava poi bagnarle per un po’. La segale era dettata dalla necessità. Un tempo, da queste parti, faceva molto più freddo di adesso e, ad alta quota, il grano non cresceva. La segale, più resistente, sì. Ora, se il pane si fa ogni sei mesi, coltivare la madre non ha senso. E, se la madre è fresca, il sale non serve, perché i fermenti troppo acidificanti, che si formano in assenza di sale, non hanno il tempo di svilupparsi.

La segale è povera di glutine, inutile stare ad impastarla a lungo. Ma è ricca di pentosani. I pentosani sono polisaccaridi formati da pentosi, cioè zuccheri semplici con cinque atomi di carbonio (principalmente xilosio e arabinosio). Sono polimeri fantastici in cucina, perché hanno una  grande capacità di trattenere l’acqua. Non a caso, il pane di segale resta morbido per giorni e giorni, mentre il pane di grano tende a diventare rapidamente raffermo.

La lievitazione dura poco più d’un’ora. Florian apre la cassa di legno, sparge la farina sulla tavola e comincia a formare le pagnotte che, disposte su una tovaglia, e ben infarinate, completano il processo per qualche decina di minuti ancora. Poi apre il forno. Un fuoco vivo, di legna, brilla tra le pietre. Il tempo di infornare tutto e siamo già alla cottura. Dopo una mezz’oretta arriva il profumo meraviglioso di cui vi hogià raccontato… La trigonella, mi spiega, è l’ingrediente magico, che da quell’inconfondibile aroma erbaceo. Nelle ricette “ufficiali” è sostituita dal cumino, ma quella è roba per turisti, che non saprebbero come procurarsela. In realtà, non è poi così difficile: basta chiamarla con l’altro nome, fieno greco, ed andare in un negozietto di alimenti etnici, come quello indiano che ho a due passi da casa e dove passo ore… Ma preferisco sorvolare su questo punto: è molto più interessante ascoltarlo che non fargli le pulci!

Il momento della sfornatura è una festa. Tutta la gente sparsa in giro accorre, come obbedendo a un silenzioso richiamo. Il Breatl è scuro e vivo, porta il marchio del fuoco. Il profumo inebriante. La crosta croccantissima. A dire il vero, non sarebbe ancora pronto: gli necessita una notte di riposo per completare la cottura e stabilizzarsi. Florian cerca di spiegarlo ad un turista, che si è avventato su una pagnotta ancora rovente ei lamenta che l’interno è crudo. In realtà non è crudo, è cremoso. Il gel di amidi, che costituisce la struttura prevalente della mollica, è ancora abbastanza fluido. Ci vuole tempo perché diventi morbido e spugnoso. In realtà a me, e pure ad Erich, piace tantissimo anche così: se gli spalmi sopra il burro, quello si scioglie e tutto diventa un’unica, impareggiabile, crema…

Riempio lo zaino di pagnotte calde. Provo a portarmi a casa un po’ di profumo dell’estate. I prati ormai si stanno coprendo di colchici. Mentre scendo, penso a Florian che resta lassù fino a sera. Domani lui sarà ancora felice fra i monti, ed io in viaggio verso casa. Mi viene in mente una favola popolare, riportata da Italo Calvino. Si chiama “La camicia dell’uomo contento”. Racconta di un re, che cerca la camicia di un uomo veramente contento per farla indossare al figlio e guarirlo dalla tristezza. Dopo vane ricerche trova finalmente un uomo contento: è un contadino che lavora cantando. Ma il contadino non ha camicia...

Ciao Florian. Ciao Erich.

Ciao montagne.

Ci rivediamo per un Törggelen, nella stagione delle castagne.



















martedì 21 agosto 2012

I fungaioli e la magia del trealosio


Un giorno di pioggia, due di sole e luna nuova: i boschi del Sudtirolo si sono riempiti di funghi. E, ovviamente, di fungaioli. 

Un tempo, anch’io potevo vantarmi di appartenere a quell’eletta schiera. Un tempo, quando potevi scorrazzare liberamente per i boschi e fare quello che ti pareva, con i soli limiti posti dal buonsenso. Sfortunatamente, il buonsenso è soggettivo, e sono nati i regolamenti. Secondo quello attuale, i funghi si possono raccogliere solo dalle 7 alle 19 dei giorni pari, pagando 8 €, fino ad un massimo di 1Kg e ponendoli tassativamente in recipienti rigidi e aperti. Se sei residente, non paghi e puoi raccoglierne 2 chili. Se sei il padrone del bosco, 3 chili. Vi risparmio le sanzioni previste… Il fatto è che queste regole mi provocano un dolore alla pancia simile a quello che mi danno le circolari ministeriali. Così ho smesso di andar per funghi. I veri fungaioli, per quanto ne so, semplicemente le ignorano, cercando di non farsi scoprire. In primis, perché per loro un chilo al giorno suona come una barzelletta. E poi, alle 7 del mattino il vero fungaiolo se ne sta già sul balcone a pulire, tagliare e mettere a seccare il suo raccolto.

Sì, perché il bello dei funghi è che si possono seccare. I chili e chili di prelibatezza regalati dalla bella stagione, si riducono per incanto in peso e volume e si conservano senza problemi per tutto l’anno, o anche più. Quando servono, si mettono in acqua e magicamente “rinvengono”, ovvero riacquistano forma, peso e volume, e tornano quasi come freschi, pronti per arricchire sughi e risotti. Questa magia è tutta merito di uno zucchero magico, che si chiama trealosio.

Il nome ha origini esotiche. La “trehala manna”, da cui il chimico francese Marcellin Berthelot lo isolò nel 1859, si trova nel deserto iracheno. E’ il bozzolo di una specie di scarafaggio, che i beduini erano soliti raccogliere sulle foglie delle rare piante per utilizzarlo come dolcificante. Qualcuno pensa addirittura che la Manna biblica, raccolta dagli Ebrei nel deserto, fosse una qualcosa di  simile. La stessa sostanza in realtà era stata scoperta anni prima, nel 1832, dal tedesco Wiggers nella segale cornuta ma, a differenza di Wiggers, Berthelot riuscì ad estrarla, e da allora in poi i chimici l’ebbero a disposizione in forma pura.

Chimicamente parlando, il trealosio è un disaccaride, formato da due molecole di glucosio. Anche il maltosio, zucchero molto comune in gastronomia, è un formato da due molecole di glucosio. La differenza sta nel fatto che le due molecole sono legate fra di loro in punti differenti, e questo basta a conferire ai due zuccheri proprietà diversissime.  La peculiarità del trealosio che ci interessa, è il suo comportamento in soluzioni acquose ad alta concentrazione. Quando l’acqua che lo tiene disciolto comincia a calare, le molecole vengono a trovarsi a distanza abbastanza breve da legarsi debolmente fra di loro, arrivando a formare una rete disordinata e rada che percorre tutto lo spazio a disposizione inglobando molecole d’acqua. Questa rete, che tecnicamente si chiama aggregato di percolazione, conferisce al sistema una consistenza gelatinosa che si fa via via più rigida al diminuire dell’acqua. Se questa struttura si forma all’interno di una cellula, riesce a mantenere gli organuli al loro posto, impedendo la morte della cellula stessa. Alcuni organismi particolarmente ricchi di trealosio, riescono in questo modo ad entrare in uno stato di “morte apparente” (detto criptobiotico, ovvero di vita nascosta) dovuto alla disidratazione,  per poi “resuscitare” quando vengono reidratati. 

Uno degli esempi più divertenti di reidratazione di organismi ricchi di trealosio è la Selaginella Lepidophylla, la “pianta della resurrezione” dei deserti del Centroamerica. Mi ricordo di averne comprati due esemplari anni fa all’Euroflora di Genova e di averci giocato per settimane: quand’è secca è marrone, leggera e se ne sta chiusa a sfera come una pietra, ma quando la bagni, rapidamente si apre e torna verde. Ai funghi secchi accade più o meno la stessa cosa. Infatti, i funghi sono tra gli organismi più ricchi di trealosio. Sapete qual è l’altra categoria, importante gastronomicamente, di  prodotti ricchi di trealosio? I lieviti! Non avete mai notato come il lievito disidratato in polvere, che si conserva per mesi e mesi, non appena lo bagnate torna a vivere e a mangiare lo zucchero?

Il trealosio oggi può anche essere utilizzato come ingrediente. Fino a poco tempo fa, le metodologie di produzione, che consistevano nell’estrazione dal lievito secco, erano costosissime e lo rendevano proibitivo. Poi, nel 1994, la compagnia giapponese Hayashibara ha messo a punto un processo di produzione che utilizza come materia prima l’amido, e i prezzi sono crollati: da 250$ a 2.50$ al chilo!

Un altro utilizzo interessante riguarda la cosmesi. Mi ricordo che alla fine degli anni ’90, un gruppo di colleghi fisici aveva avuto l’idea, molto bella, di una linea di cosmetici a base di trealosio, basata sulla constatazione che questo zucchero poteva evitare la disidratazione anche alle cellule della pelle umana. Avevano realizzato una serie di prodotti eccezionali: chiunque li provava ne era entusiasta. Ma proprio in quel frangente, ebbi modo di rendermi conto di quanto il mondo accademico disti dal mondo reale… Infatti, non avevano considerato a fondo il problema della distribuzione e della pubblicità, e l’azienda chiuse i battenti in poco tempo. Il fatto è che l’accademico medio è abituato a ricevere finanziamenti pubblici, assegnati da commissioni di esperti, che sono spesso colleghi ed amici, e non hanno nessuna responsabilità, soprattutto economica, delle loro scelte. Se trovano un’idea bella e interessante, assentono al finanziamento, e tutto finisce lì. Diverso è il caso di un finanziatore privato o di un consumatore, che si trova a dover aprire i cordoni della sua borsa. E’ più critico, più sospettoso, considera ogni dettaglio. E’ difficile convincerlo con un poster che raffigura un fustacchione con la faccia di Einstein che corre sulla spiaggia e la scritta “Ci vuole un fisico bestiale”….

Un'altra fissa di chi gestisce i finanziamenti pubblici sono i brevetti. Un brevetto è un titolo che conta, nel mondo accademico. Per questo, in molti, si affannano a brevettare di tutto. Dopo anni di convivenza con mondo della produzione e dei mercati, ho imparato che un brevetto che non va in produzione e in vendita è un titolo negativo. Un boomerang. La prova che l’invenzione non era un granché o che l’inventore non è stato convincente. I brevetti che non vanno in produzione scadono, e diventano di pubblico dominio. Sappiamo bene, nel nostro ambiente, che la tecnica della sferificazione inversa deriva da un brevetto scaduto di un ricercatore giapponese. Se hai un’idea che vale economicamente, spesso, più che brevettarla, è il caso di tenerla ben nascosta. Lo sanno bene molti cuochi famosi, che pubblicano ricette volutamente diverse dall’originale. Lo sanno bene i fungaioli, che rompono un’amicizia piuttosto di rivelarti dove sono le loro fungaie. 

Ve lo vedete un cercatore esperto che, dopo aver scoperto una nuova fungaia, va in un ufficio pubblico, la registra, ne ottiene i diritti, la recinta e ci scrive sopra “fungaia privata”? O assolda una guardia privata, o dopo qualche giorno se la ritrova svuotata. Se si sente seguito, il vero fungaiolo ti depista. Se li chiedi dove va, ti indica con precisione un posto distante. Ma se lo lasci in pace, è fiero di regalarti anche metà del suo raccolto. Come il mio amico Giuliano, che, mentre stavo finendo di scrivere, mi ha chiamato per darmi una borsa piena di porcini freschi. Sono senz’altro più d’un chilo. Come l’avrà messa con il regolamento? Preferisco non pensarci. Stasera, intanto,  li mangio in insalata con le scaglie di parmigiano…



lunedì 13 agosto 2012

Come l'acqua per il burro


Esco per fare quattro passi senz’impegno. Sandali, pantaloncini  e minizainetto made in China, tanto per tenere le tasche vuote. La giornata è splendida. Incontro Erich che va verso i campi con l’aria corrucciata.

-Che succede?
-Domani piove.
-Meglio no? Dicevi che i campi hanno bisogno d’acqua…
-Sì, ma così oggi devo raccogliere il fieno e non posso salire alla malga. Fanno il Breatl e il burro fresco.
-L’ho sentito dire, ma è roba per turisti, con le donne in costume che fanno finta di essere nel secolo scorso…
-Sì, ma il pane e il burro sono buoni, la gente del paese va a comprarli. Pazienza. Buona passeggiata.
-Buon lavoro Erich.

Saluto con la mano e, girato l’angolo, mi infilo nel bosco e prendo la scorciatoia ripida, quella che i turisti ignorano o evitano.

In meno d’un’ora arrivo alla radura dove sorge la malga, e davanti ai miei occhi si presenta un incedibile spettacolo di varia umanità. Orde di villeggianti vestiti stile spedizione himalayana, signore salite in auto con i tacchi a spillo e le borsette firmate, gente del paese che, in un angolo, beve birra con in mano le borse della spesa. Ciclisti della domenica che arrancano su costosissime mountain bike, con tute da Arlecchino e in testa il casco aerodinamico, che, a quelle velocità, è veramente essenziale.  Penso un attimo con nostalgia a quando, da ragazzini, scorrazzavamo su e giù per le colline con le bici arrugginite di terza mano, in espadrillas e jeans, spesso con un pedale rotto o una ruota storta. Poi mi si apre il cuore quando vedo una vecchietta del posto salire lesta in Birkenstock e gonna nera lunga, superando con nonchalance i variopinti ciclisti, stravolti e quasi in coma.

I tavoloni sono pieni di gente che mangia e beve. Un’orchestrina in costume suona musica tirolese. Mi apparto a prendere fiato appoggiato alla staccionata che dà sulla valle. Il cielo azzurro ed i ghiacciai mi ritemprano i pensieri. Poi, come d’incanto, inizia a circondarmi un profumo avvolgente e dimenticato. Riconosco il lievito naturale e la trigonella… Nel forno di pietra, il Breatl, il pane contadino, ormai ridotto pure lui ad attrazione turistica, ha raggiunto le temperature di Maillard. Ma accidenti, questo è il Breatl vero! Non quello che producono in serie i fornai della valle. Non quello che i malcapitati turisti si illudono di riprodurre nelle macchine del pane, comprando le miscele già pronte al supermercato.  Ho deciso, resto. Almeno finché non si sforna.

Mi guardo in giro con spirito diverso, e scopro che, con la pala in mano e il Blauschurz sporco di farina c’è il miglior fornaio della zona. Poi la mia attenzione cade sul centro della scena, che paradossalmente sembra ignorato dalla massa. Accanto alla fontana antica scavata in un tronco, le donne stanno facendo il burro. Arrivano i bidoncini di panna, affiorata dal latte lasciato riposare tutta la notte. La versano nella zangola. Agitano. Poi, si inizia a sentire un rumore diverso, di un oggetto solido che si agita nell'acqua. La prima massa informe è pronta. La prendono a pezzi con le mani, la impastano, la strizzano, la lavano sotto l’acqua corrente della fontana. Ottengono tanti panetti dalla forma irregolare, che mettono a riposare nell'acqua fredda della vasca. Poi, dall'altra vasca, estraggono gli stampi di legno con il bassorilievo d’un fiore, vi pressano i panetti informi e ottengono le forme estetiche che di nuovo mettono a galleggiare nella fontana.

E’ tutto un gioco d’acqua. Non ci avevo mai pensato. La fontana è il centro della cerimonia e della tecnologia. L’acqua per il burro dev'essere, ovviamente, molto fredda. Il termometro, che porto sempre nello zainetto insieme ad altri armamentari che di solito tengo ben nascosti, mi rivela 8 gradi. Niente male.  Anzi, perfetto: intorno ai 15 gradi il burro inizia ad ammorbidirsi, e prima dei 30 gradi comincia a sciogliersi. L’acqua tiepida lo distruggerebbe. L’acqua fredda lo lava e lo consolida. Mi si apre la mente a questa simbiosi profonda tra l’acqua ed il burro. Il burro contiene acqua, sotto forma di minuscole goccioline al suo interno, circondate da proteine emulsionanti, che le stabilizzano nella massa grassa. La quantità è bassa,  compresa tra il 15 ed il 20 %, ma basta a farlo sfrigolare in padella, quando, raggiunti i 100 gradi, le goccioline si trasformano in vapore e aumentano di volume di oltre mille volte. La si può eliminare, producendo il burro chiarificato. Ma la possiamo anche aggiungere, stemperando il burro con un cucchiaio e versandola lentamente a freddo. Si ottengono così i tradizionali burrini da spalmare sui crostini o sulle tartine. Con l’acqua salata si può fare il burrino salato. Se non ci sono in giro emulsionanti, però, l’acqua e i grassi se ne stanno ben alla larga. L’acqua della fontana scorre sui panetti, portandosi via tutte le sostanze idrosolubili e lasciando all'esterno grasso puro. Allo stesso modo, l’acqua di cui sono ben imbevuti gli stampini di legno, respinge quel grasso puro e permette di staccare la forma a meraviglia. Confesso che ne sono affascinato. Quando faccio il burro in casa io ricorro alla più prosaica pellicola trasparente stesa sul fondo dello stampo.  Bella forza, e chi ce l’ha tutta quella bell'acqua fredda e pura nella cucina domestica?

Anche quella sorta di acquetta bianca in cui si sentiva sbattere il primo ammasso burrificato viene raccolta. La versano nei bidoncini e la lasciano fermentare per fare il latticello, che in tedesco si chiama Buttermilch, ovvero “latte del burro” ed è una bevanda dissetante e dietetica. Alla malga la offrono pura o mescolata allo sciroppo di sambuco. Ma è pure un ingrediente popolare nella cucina nordica e mitteleuropea.

Non resisto alla tentazione e, discretamente, tiro fuori il telefonino per fare qualche foto. Mentre faccio di tutto per passare inosservato, passo accanto a un vistoso signore vestito da esploratore. E’ impegnato da mezz’ora a riprendere le dita del ragazzo con la fisarmonica, maneggiando una telecamera più grande di lui. Chissà perché, mi chiedo, gli operatori della Rai nel mio laboratorio hanno fatto servizi stupendi con una banale fotocamera digitale. Il cineoperatore amatoriale, girandosi senza guardare, urta una delle ragazze che stanno burrificando, facendole cadere un panetto. Lei non dice nulla, ma lo fissa con uno sguardo freddo e pungente, come l’acqua per il burro. Io mi avvicino e le chiedo di comprare quei panetti. A me sorride… Pago e me li faccio tenere in fresco, nell’acqua, fino al momento di ripartire.

Mi distrae un brusio crescente. Il panettiere sta sfornando il Breatl. Mi scavo una via tra la folla e riesco a fare la mia spesa. Ritiro anche il burro e mi lancio a gran velocità giù per il sentiero ripido, prima di trovarmi travolto dalle orde di turisti che rientrano. Il bosco è fresco e silenzioso. 

Torno in paese verso il tramonto. Erich sta fumando sulla soglia di casa.

-Lo vuoi un po’ di Breatl e di burro fresco? – gli dico strizzando l’occhio. 

Gli si illumina il volto. Gli regalo un Breatl e un panetto di burro.

-Grazie! E’ buono al mattino col caffè!

- Lo so, lo so. - gli rispondo, mentre mi allontano, tenendo ben celati nello zaino due chili di burro fresco e quattro pagnotte ancora calde…











lunedì 6 agosto 2012

Quei ragazzi degli anni '80

La notizia della scomparsa di Renato Nicolini mi ha colto all’improvviso, mentre, dopo le fatiche d’Ercole di luglio, fuggivo verso il mio rifugio, sperduto tra le montagne pusteresi.
I miei pensieri stavano indugiando compiaciuti sulla bottiglia di latte appena munto, che il mio amico Erich mi avrebbe fatto trovare davanti alla porta di casa, ma d’un tratto si sono trovati a cambiare direzione. Nella mente ha cominciato a risuonare la voce di Don McLean che cantava “the day the music died”.
 – Ecco – mi son detto - adesso sono proprio morti gli anni ’80 -.  Quegli anni che chiamavano dell’effimero, del riflusso, di tutto quello che volete, ma che restano indimenticabili. E non solo perché la mia generazione aveva vent’anni…
Era finito il liceo, con le lunghe assemblee, l’impegno, gli attentati, gli scioperi, le canzoni di lotta e la nouvelle cuisine. Gli anni dell’università iniziavano all’insegna delle feste, e Renato Nicolini era il nostro modello, il nostro mito, il moderno Taliarco delle Estati Romane, che ci indicava un modo nuovo di “impegnarci”, leggero, ma allegro, vitale, creativo.
Lezioni al mattino, e alla sera teatro, cinema, musica, cucina. Inverni nebbiosi scaldati da chitarre e polenta. Estati d’esami, notti calde per le strade, e i primi fumi freschi dell’azoto liquido. Tutto era gioco, la scienza come la vita. I ghiaccioli di grappa per pelare la lingua ai rivali, la grappa nell’acqua della moca per inventare il caffè supercorretto.  Alle feste mi dividevo tra i musici e i cucinieri, ma alla fine in cucina entravo sempre. E lì si produceva, si improvvisava, si modificava, un po’ per scienza e un po’ per caso. Dopo una notte bianca di caffè salati, ci trovammo a lezione con la cravatta bianca macchiata di vino, in mezzo ai serissimi e compassati matematici. La sera prima io ed Emilio preparavamo il sugo per la pasta lanciando in padella piselli e pezzetti di prosciutto dalla stanza accanto. La povera Claudia, sventurata padrona di casa, ricorda ancora oggi le pulizie del giorno dopo. Mitiche variazioni sulla carbonara, che preparavo con due condimenti indipendenti, uno cotto e  uno crudo, da unire all’ultimo. Era di moda. Gli Spliff cantavano “Carbonara e una Coca Cola”. Noi mescolavamo in pentola tutto quello che capitava. Zuppe scientifiche e metafisiche. Zuppa Romana! Ecco che mi torna in mente l’altra canzoncina teutonico-demenziale, grazie al divertentissimo libro omonimo che il suo autore, Sebastiano Zanetello, mi ha regalato per allietarmi l’estate. “Maccheroni, cannelloni, peperoni, eccola per me: zuppa romana!” cantavano gli Schrott nach Acht, e poi finivano con l’ineffabile “Non temare di provare culinare!”. No, noi non “temavamo”. E nemmeno gli altri avevano paura! Erano gli anni che gli intellettuali si facevano cuochi. Se trionfava l’effimero, che c’è di più effimero di un piatto che sta per essere mangiato? Usciva il primo numero del Gambero Rosso, come supplemento del Manifesto. Renzo Arbore ci teneva svegli con “Quelli della notte”. Harold McGee pubblicava “On food and cooking”.  E, di là dal Mare Nostrum, in un ristorantino di Cala Montjoi, prendeva servizio come chef un giovane brillante che si chiamava Ferran.
Ciao, meravigliosi anni ’80. Tutto è iniziato da voi.






Questa la spiego, perché in pochi indovinerebbero...
Ferran, Albert e Andy, cucina del Bulli, anni '80