Die Tiroler sind
lustig,
die Tiroler sind froh;
sie verkaufen ihr
Bettchen
und schlafen auf Stroh
Le parole della canzoncina, che
cantavamo da bambini, da più di due secoli dipingono lo stereotipo del
tirolese, sempre sorridente e pronto a far festa. Non so se un tempo tutti
fossero davvero così. Di certo, ho conosciuto anche tirolesi tristi e depressi.
Ma, se vedi Florian, pensi subito a quei versi e ti convinci che sono veri.
Perché Florian sorride sempre.
Appuntamento alla malga, agli
sgoccioli delle vacanze.
- - Vieni all’ultimo, così ci sono pochi turisti e
riusciamo a parlare.
Florian, con l’accento sulla o,
alla tedesca, abita a pochi passi da me. Ma non lo vedo quasi mai, perché
lavora in un’altra valle. Lavora in un panificio e, nel giorno di riposo, si
diverte e arrotonda preparando il Breatl alla malga. Lo prepara all’antica,
come si faceva quando lassù non sapevano cos’erano asfalto ed elettricità, ed è
così buono che la gente sale e fa la fila per averne uno.
Lo trovo con le mani in pasta. Ha
appena messo la ‘madre’ nella cassa di legno. Mi saluta e, ridendo, porge la
mano ricoperta di acqua e farina di segale. E’ contento davvero, glielo leggi negli
occhi. E’ contento di poter fare il lavoro che gli piace e che ha sempre
sognato. E questa è felicità.
Siamo nel cortile della malga. A
pochi metri di distanza, una turista in bikini si abbronza sulla sdraio,
tenendo tra le mani “Cinquanta sfumature di grigio”. Mi metto a ridere anch’io.
I gusti sono gusti, per carità. Ma, da quando mi è capitata tra le mani la
parodia di Ottavio Cappellani, ogni volta che vedo un romanzo della James, non
riesco a trattenermi.
La madre, fatta solo da acqua e
farina di segale, è stata preparata pochi giorni prima. Florian versa acqua in
abbondanza, poi ancora farina di segale e poca farina di grano. Aggiunge, solo
ora, il sale. Poi le erbe: trigonella, coriandolo, finocchio. Mescola con una
mano, saggia la consistenza e ordina al suo aiutante “Noch zwoamal!”. E’
dialetto, e significa che deve aggiungere altre due palettate di farina di
segale. Continua a rimescolare, più che impastare, con le mani, finché la
cremosità non lo soddisfa. La prova tracciando una X sulla superficie dell’impasto:
il segno resta. Ok, ci siamo. Chiude la cassa e lascia che il lievito faccia il
suo lavoro.
- - Florian, e le dosi? La temperatura? Il pH??
- - A occhio! Io fiuto, tocco, sento.
Penso ai trattati di
panificazione, pieni di numeri grafici e tabelle. Ma, in fondo, il pane si
faceva prima che Galileo inventasse il termometro e prima che nelle malghe
arrivassero le bilance. Chiedergli di pesare sarebbe come chiedere a un pittore
di miscelare i colori usando uno spettrometro. Florian impasta senza pesi e
misure, così come io cammino senza risolvere le equazioni del moto delle mie
gambe. Non per questo cado. Anziché calcolare il passo, lo correggo e lo
aggiusto ad ogni istante per cercare l’equilibrio. Così fa Florian con la sua
miscela. Anche questa è scienza. Prevedere tutto partendo dalle condizioni
iniziali è illusione ottocentesca. Più moderno è l’algoritmo di computer, che
itera una procedura finché la condizione finale desiderata non è soddisfatta.
Mentre il pane nero lievita,
considero che ogni gesto, nel rito di Florian, ha una ragione. La procedura
sembra agli antipodi della panificazione da manuale. Mi cade il mito delle
madri rinfrescate e conservate per anni e anni. –Se la tieni troppo prende
aromi cattivi.- E poi è senza sale. L’impasto è debole, il glutine si forma in
misura minima. Prima di tutto perché la farina di segale contiene poche proteine
adeguate alla sua formazione, tanto che, per tenere insieme il tutto, bisogna comunque
aggiungere una piccola percentuale di farina di grano. E, poi, perché la
lavorazione della massa è breve e senza forti pressioni. Tutto ha una ragione.
Con buona pace del mio amico Hervé, la tradizione non nasce da sogni e miti, ma
dalla sperimentazione quotidiana.
Per capire il Breatl bisogna
considerare che, un tempo, nelle malghe lo si preparava solo due volte l’anno.
Le pagnotte, larghe e piatte, si indurivano e venivano conservate per mesi
nelle rastrelliere di legno. Per mangiarle morbide, se lo si desiderava,
bastava poi bagnarle per un po’. La segale era dettata dalla necessità. Un
tempo, da queste parti, faceva molto più freddo di adesso e, ad alta quota, il
grano non cresceva. La segale, più resistente, sì. Ora, se il pane si fa ogni
sei mesi, coltivare la madre non ha senso. E, se la madre è fresca, il sale non
serve, perché i fermenti troppo acidificanti, che si formano in assenza di sale,
non hanno il tempo di svilupparsi.
La segale è povera di glutine,
inutile stare ad impastarla a lungo. Ma è ricca di pentosani. I pentosani sono
polisaccaridi formati da pentosi, cioè zuccheri semplici con cinque atomi di
carbonio (principalmente xilosio e arabinosio). Sono polimeri fantastici in
cucina, perché hanno una grande capacità
di trattenere l’acqua. Non a caso, il pane di segale resta morbido per giorni e
giorni, mentre il pane di grano tende a diventare rapidamente raffermo.
La lievitazione dura poco più d’un’ora.
Florian apre la cassa di legno, sparge la farina sulla tavola e comincia a
formare le pagnotte che, disposte su una tovaglia, e ben infarinate, completano
il processo per qualche decina di minuti ancora. Poi apre il forno. Un fuoco
vivo, di legna, brilla tra le pietre. Il tempo di infornare tutto e siamo già
alla cottura. Dopo una mezz’oretta arriva il profumo meraviglioso di cui vi hogià raccontato… La trigonella, mi spiega, è l’ingrediente magico, che da quell’inconfondibile
aroma erbaceo. Nelle ricette “ufficiali” è sostituita dal cumino, ma quella è
roba per turisti, che non saprebbero come procurarsela. In realtà, non è poi
così difficile: basta chiamarla con l’altro nome, fieno greco, ed andare in un
negozietto di alimenti etnici, come quello indiano che ho a due passi da casa e
dove passo ore… Ma preferisco sorvolare su questo punto: è molto più
interessante ascoltarlo che non fargli le pulci!
Il momento della sfornatura è una
festa. Tutta la gente sparsa in giro accorre, come obbedendo a un silenzioso
richiamo. Il Breatl è scuro e vivo, porta il marchio del fuoco. Il profumo
inebriante. La crosta croccantissima. A dire il vero, non sarebbe ancora
pronto: gli necessita una notte di riposo per completare la cottura e
stabilizzarsi. Florian cerca di spiegarlo ad un turista, che si è avventato su una
pagnotta ancora rovente ei lamenta che l’interno è crudo. In realtà non è
crudo, è cremoso. Il gel di amidi, che costituisce la struttura prevalente
della mollica, è ancora abbastanza fluido. Ci vuole tempo perché diventi
morbido e spugnoso. In realtà a me, e pure ad Erich, piace tantissimo anche
così: se gli spalmi sopra il burro, quello si scioglie e tutto diventa un’unica,
impareggiabile, crema…
Riempio lo zaino di pagnotte
calde. Provo a portarmi a casa un po’ di profumo dell’estate. I prati ormai si
stanno coprendo di colchici. Mentre scendo, penso a Florian che resta lassù
fino a sera. Domani lui sarà ancora felice fra i monti, ed io in viaggio verso
casa. Mi viene in mente una favola popolare, riportata da Italo Calvino. Si
chiama “La camicia dell’uomo contento”. Racconta di un re, che cerca la camicia
di un uomo veramente contento per farla indossare al figlio e guarirlo dalla
tristezza. Dopo vane ricerche trova finalmente un uomo contento: è un contadino
che lavora cantando. Ma il contadino non ha camicia...
Ciao Florian. Ciao Erich.
Ciao montagne.
Ci rivediamo per un Törggelen,
nella stagione delle castagne.