In un’estate un po’ spenta, con i
grandi chef creativi che iniziano a segnare il passo, è normale che sulla
stampa e sulla rete abbia spopolato il piatto più provocatorio. Sto parlando,
in realtà, non di un solo piatto, ma delle variazioni che René Redzepi ha
composto sul tema delle formiche vive: dalle Live ants with crème fraîche presentate a luglio come antipasto,
ai Blueberries and ants serviti in
questi giorni come dessert.
Ohibò, formiche vive! Stracciarsi
di vesti generale, con qualche voce coraggiosa che si leva dal coro per
difendere la sperimentazione. Se lo scopo di Redzepi era far parlare di sé, l’obbiettivo
è raggiunto.
Tutto questo non mi stupisce.
Molti non hanno idea di che fatica
deve fare uno chef di grido, anche il primo al mondo, per continuare a tenere
desta l’attenzione sul suo lavoro. I tempi sono cambiati. Non sono più i
clienti diretti a diffondere il verbo della grande cucina. Giornali, televisioni,
blog e siti web moltiplicano l’informazione all’impazzata. Non si può restare
chiusi in cucina ed aspettare che il gourmet di turno vi venga a cercare.
Bisogna partecipare a congressi, organizzarli, presenziare in tv, farsi
intervistare, manifestarsi sui social networks. Non è più l’epoca dorata che ha
tenuto a battesimo la grande cucina moderna. Ve lo immaginate Escoffier che candidamente
twitta “I love to sleep”?
Ma non mi stupiscono nemmeno i piatti.
Mi incuriosiscono, ma non mi
sconvolgono. Sono nuovi, ma non tremendamente originali. La cultura occidentale
purtroppo è terribilmente miope e autoreferenziale. Tutto ciò che accade al di
là delle sue moderne colonne d’Ercole, semplicemente non la riguarda. Quindi,
non fa nulla se esistono popoli che da sempre mangiano insetti. Non fa nulla se
in Thailandia si producono ghiottonerie a base di insetti ordinabili sul web,
se sul web si può comprare anche il leccalecca alle formiche,
se le enormi hormigas culonas sono il
cibo più prelibato e costoso nella regione di Santander in Colombia e vengono
usate come ripieno dei cioccolatini.
Figuriamoci.
Per giustificare l’entomofagia
(questo è il nome scientifico e altisonante dell’abitudine di mangiare insetti)
semmai qualche anima candida si sente in dovere di citare i rapporti dell’Onu,
che identificano negli insetti la fonte di proteine del futuro, in alternativa
alla carne. Nel caso dei piatti di Redzepi, il discorso nutrizionale suona come
una stupenda barzelletta. E’ verissimo che le formiche contengono in media il
40% di proteine. Il problema è che il peso medio di un singolo esemplare è dell’ordine
del milligrammo. Quindi, per assumere la stessa quantità di proteine contenuta
in un fagiolo, dovremmo mangiarne circa 3000. Se consideriamo che René si è
portato a Londra, per la sua trasferta estiva di dieci giorni al Claridge’s ,
circa 22mila formiche, risulta che i suoi numerosi clienti insettivori si sono
spartiti le proteine contenute in poco più di sette fagioli.
La scienza e l’antropologia
studiano gli insetti come fonte di cibo da tempi lontani. Nel 1885 a Londra
(guarda un po’ che caso…) Vincent Holt pubblica un libro di un centinaio di
pagine dal titolo eloquente: Why Not Eat
Insects?. In tempi più recenti, è stata pubblicata una rivista, The Food Insects Newsletter, che ha
divulgato notizie e ricerche sull’entomofagia dal 1988 al 2000, ovvero finché
il web non ha preso il sopravvento. Oggi, gli appassionati dell’argomento
trovano una fonte notevole di informazioni sul sito di riferimento food-insects.
La repulsione occidentale per gli
insetti come cibo è puramente culturale, e non ha basi scientifiche.
Esattamente come sono di origine culturale o religiosa le più diffuse
idiosincrasie alimentari. Ebrei e musulmani non mangiano il maiale, mentre gli
indù non mangiano bovini. A Parma tradizionalmente si mangiano il cavallo crudo
e lo stracotto d’asino, ma i miei amici inglesi quasi svengono quando,
passeggiando, ci capita di passare davanti ad una macelleria equina.
Girando per il mondo ho mangiato
cibi d’ogni tipo, insetti, coccodrilli, orina bovina fermentata. Ho scoperto
che il “buono da mangiare” è sempre inscindibile dal “buono da pensare”, per
usare i termini di Marvin Harris. Ho provato ad offrire le formiche glassate al
cioccolato ad ospiti ignari, spacciando il contenuto per frutta esotica, senza notare
segni di disgusto. La paura del nuovo, purtroppo, è il marchio più netto dell’Italia
di oggi, sia che il nuovo si chiami cucina molecolare, sia che si tratti di un
nuovo relativo, perché altrove decisamente antico.
Qualcuno obbietta che l’aspetto
raccapricciante deriva dal fatto che le formiche sono vive. Nemmeno questa è
una novità. In Uganda si mangiano le formiche vive, appena uscite dal
formicaio. E pure gli aborigeni australiani mangiano vive le formiche da miele.
Ma non è che le ostriche che deliziano i palati occidentali si mangino defunte.
Non sono insetti! - obbietterà il solito bastian contrario. E’ vero. Ma sapete
qual è il popolo più famoso al mondo come mangiatore di insetti vivi? Siamo
noi. Gli Italiani. Il casu marzu
sardo, e tutte le varianti continentali di formaggio con i vermi, sono citate
sui trattati di antropologia alimentare di tutto il mondo come esempi di cibo
da insetti vivi.
Da tempo, ho in mente di pranzare
al Noma. Quando ci andrò, se saranno in menù, penso che assaggerò le formiche.
Sempre che la cosa non disturbi i miei commensali, perché in quel caso
rinuncerei, come rinuncio alla carne di maiale quando mangio con un musulmano.
Non le assaggerò per la curiosità
di provare una novità incredibile.
Le mangerò per scoprire come il
grande René Redzepi reinterpreta la secolare cucina degli insetti.