lunedì 17 settembre 2012

Dal Döner Kebab alla cotoletta di Marchesi. Appunti di geometria gastronomica.


Come tutto ciò che è umano, anche le tradizioni hanno un inizio, legato ad un nome e ad un luogo. E, soprattutto, ad un’innovazione.  E l’inizio difficilmente si perde nella notte dei tempi.

Correva l’anno 1860 e l’Italia stava per essere unificata. A Bursa, importante città turca a un centinaio di chilometri a sud di Istanbul, il 12enne Iskender Efendi lavorava già nel ristorante di famiglia. Trafficando insieme al nonno, per migliorare il loro agnello allo spiedo, ebbe un’idea innovativa.  Anzi, tre, come raccontano i suoi eredi.  

La prima, consiste nel ripulire l’animale, tagliato a pezzetti, dalle ossa e da tutte le parti coriacee e meno nobili, prima di metterle a marinare ed infilarle sullo spiedo. La seconda, che è la più caratterizzante, è quella di orientare lo spiedo stesso in verticale, facendolo girare davanti a un braciere altrettanto verticale, appositamente costruito. La terza, di importanza non trascurabile, consiste nel tagliare la superficie dello spiedo cotto a fette sottilissime con un coltello lungo ed estremamente affilato.  

Le innovazioni non erano niente male, ed il nuovo piatto divenne popolare. A Bursa iniziarono a chiamarlo İskender Döner Kebabı, ovvero l’arrosto rotante di Alessandro. Con gli anni, il piatto si diffuse in tutta la Turchia e il nome per comodità venne abbreviato, omettendo il povero İskender-Alessandro che l’aveva inventato. Poi gli emigranti Turchi lo diffusero nel mondo. In Europa, arrivò prima di tutto in Germania, dove la comunità turca è sempre stata numerosa. E a me capitò di assaggiarlo proprio lì, prima ancora che in Turchia, in anni in cui in Italia non era ancora diffuso.

Mi ricordo di aver osservato a lungo, come incantato, la lenta lavorazione ed il servizio, che per me erano del tutto nuovi. L’assetto verticale è geniale. Il grasso, sciolto dal calore, si diffonde lentamente tra i pezzetti di carne, mentre scivola verso il basso. Li impregna, li intenerisce, li aromatizza. Poi, se ne va a cadere lontano dal braciere, evitando i fumi e le puzze di bruciato del barbecue orizzontale, che non giovano all’aroma delicato della pietanza.

Ma l’aspetto che mi affascinava di più, fin da allora, era l’intima ragione geometrica di quella preparazione. 

Trascurata da trattati e manuali, ma conosciuta istintivamente dal cuoco, la geometria del cibo, il gioco di rapporti e proporzioni tra le sue misure, la sua forma esterna ed interna, ne determina in maniera decisiva le qualità gastronomiche.

Il Döner Kebab è arte suprema delle superfici.

Il calore e la marinatura entrano nei pezzi di carne attraverso la loro superficie. Le forme regolari e compatte ne inibiscono la penetrazione. Quelle più sottili, spezzettate, irregolari, la favoriscono. 

Il calcolo variazionale ci permette di dimostrare che, a parità di volume, la sfera, la forma compatta per eccellenza, è quella che presenta la superficie minore. Le sfere cuociono lentamente e sono problematiche da marinare. Le patate intere non si friggono. La pizza, che cuoce rapidamente, è piatta e sottile.

Iskender taglia l’agnello a pezzetti sottili ed esalta la marinatura.

Ma la sua trovata più geniale sta nella cottura e nel servizio. Anche la tostatura, che si produce negli arrosti con le alte temperature, è un effetto di superficie. Per quanto il kebab sia affusolato, la sua superficie non conta poi tanto rispetto al volume. Ma se, per preparare ogni porzione, mi limito a “rasare” la scura e profumata superficie arrostita, nel piatto mi ritrovo un fantastico concentrato di aromi. E, mentre viene il turno del cliente successivo, la tostatura ha tutto il tempo di riformarsi.  A volte, l’intuizione di un ragazzino supera prediche e trattati di tanti scienziati…

I cuochi, però, i rapporti superficie-volume, li controllano da sempre. Tagliare e sminuzzare è il metodo più ovvio per aumentare la superficie totale. Vi siete mai chiesti perché, nel soffritto, le verdure si tritano fini fini? E perché si trita la cane del ragù? O, ancora, perché la polvere più fine dell’espresso dà aromi più intensi rispetto alla moka? 

D’alta parte, la pasta, oltre uno spessore critico non cuoce, oppure scuoce. Gli spaghetti, oltre un certo spessore, diventano bucatini, ed offrono all’acqua calda tutta la superficie interna. I fusilli, dal diametro audace, sono percorsi da quel solco spiraleggiante che ne moltiplica spaventosamente la superficie. Le patatine fritte in busta sono tutta superficie. Poi sono arrivati i Pringles, che aumentano ulteriormente l’effetto, adottando come forma una superficie a curvatura negativa, il paraboloide iperbolico.

A volte, sulla superficie, è racchiuso tutto lo spirito di un piatto. Penso alle fritture e, soprattutto alle fritture impanate.  La cotoletta austriaca è sottile. Il pangrattato quasi vince sulla carne. L’arancino siciliano è compatto: qui deve vincere il ripieno.

La cotoletta alla milanese è dominata dalla spessa fetta di carne di vitello, morbida e gustosa (quando il cuoco è degno). La crosticina impanata, però fa la differenza. Peccato che, a causa dello spessore, passi un poco in secondo piano. Se non fosse, ovviamente per i bordi che, guardacaso, di solito sono i pezzi preferiti. Riflettendo su tutto questo, anni fa, Gualtiero Marchesi ha elaborato una delle sue invenzioni più geniali. Ha tagliato la carne a bocconi, impanandoli e friggendoli uno ad uno, per poi ricomporre, o quasi, la cotoletta nel piatto.

Caro Gualtiero, chapeau!

Permettetemi di rendere omaggio così al grande maestro ed amico, che il 10 ottobre riceverà finalmente la laurea ad honorem, proprio dalla mia università.



Iskender Efendi











1 commento:

  1. Al di là delle geometrie, che sono fondamentali, il post mi ha fatto venire l'acquolina in bocca.

    RispondiElimina