domenica 28 ottobre 2012

La scienza stupida


Il mio primo sospetto di una percezione distorta della scienza nel mondo gastronomico risale a una decina d’anni fa. 

Giravo per le gelaterie a spiegare come si usa l’azoto liquido e mi capitò un gestore che i colleghi definivano uno “scienziato”.  Faceva un pessimo gelato, che appiccicava in bocca perché era pieno di guar, ma era orgogliosissimo di un foglio di calcolo di Excel, che aveva messo a punto per il bilanciamento delle miscele. Dato che era anche piuttosto presuntuoso gli dissi senza mezzi termini che quelle erano cose da ragionieri, non da scienziati, e che il suo foglio di calcolo poteva pure buttalo nel cestino, perché, con l’azoto liquido, le regole di bilanciamento non servono a niente (se volete un giorno vi spiego perché).

Ma il fascino perverso dei numeri inutili era nell'aria.

Pochi mesi dopo, un’amica giornalista mi telefona tutta eccitata, dicendomi che un mio collega le aveva rivelato la temperatura esatta di temperaggio del cioccolato.
-Ah, sì? Quale cioccolato?- le chiedo.
-Quello fondente!
-A che percentuale di cacao, zucchero, burro di cacao?
-Quella tipica!
-Ah, e quale sarebbe questa temperatura?

Al che mi spara un numero con due cifre decimali, cioè una precisione al centesimo di grado. Poi mi chiede perché ero scoppiato a ridere e non parlavo più.

Le suggerisco di non pubblicare certe storie e di riportare al mio “collega” questo messaggio: “Il temperaggio del cioccolato non è una transizione di fase di equilibrio, ma un passaggio rapido tra due regimi di temperature in cui coesistono diversi stati metastabili. Quindi parlare di una temperatura esatta di temperaggio non ha senso, per definizione”. Il presunto collega, come scoprii più tardi, era un nutrizionista, e quindi non capì un accidente di quel messaggio. L’ignara giornalista pubblicò. Pare qualche pasticcere geniale, leggendo l’articolo, si sia messo in cerca dei termometri al centesimo di grado.

Ma, nell'immaginario collettivo, c’è qualcosa che caratterizza lo scienziato ancora meglio del numero. Qualcosa che, nella scala dei valori metafisici, lo supera e lo sublima.

La formula, ovviamente.

Anni fa mi trovai a prender parte a una richiesta di finanziamento per un megaprogetto di ricerca. Di quelli che coinvolgono tante sedi e tante discipline diverse e che sono coordinati da enti o società specializzati in questo genere d’affari. Avevo scritto e spedito il mio dignitoso contributo, spiegando il mio compito scientifico in termini rigorosi, ma nel modo più chiaro e semplice possibile. Mi telefona una burocrate strapagata, che stava a capo dell’ente coordinatore, e mi dice con tono stizzito che la mia relazione appariva superficiale. Le chiedo se l’aveva letta bene e se c’era qualcosa in particolare che riteneva banale. Quella ci gira attorno, perché probabilmente non si era posta il problema del contenuto, e poi mi dice che in una relazione scientifica seria ci devono essere più formule. 
–Va bene –le dico - provvederemo. 
Prendo la relazione e, di proposito, l’infarcisco di formulacce pompose, che c’entrano poco o nulla con quello che scrivo. Ma spiccano agli occhi, perché mi premuro di decorarle con tensori a tre indici e integrali di cammino su circuiti chiusi, che esteticamente sono ineccepibili. 
La signora mi ritelefona il giorno dopo complimentandosi.  
–Professore, la sua relazione adesso è meravigliosa!”.  
Questo è il livello di competenza con cui vengono giudicati i progetti scientifici.

Al fascino delle formule, purtroppo, non sono immuni nemmeno giornalisti scientifici e divulgatori.
-     -  Professore, ma non mi può scrivere una bella formula da mettere in una box a parte con lo sfondo colorato? Sa, non troppo lunga, se no supero il numero di battute, ma abbastanza complessa per far capire che c’è sotto molta scienza…

Certo, moltissima scienza. Come nella famigerata formula per il tempo di cottura delle uova, che un certo dott. Williams dell’università dell’ Essex pubblicò nel 1998 sul New Scientist. Per chi non lo sapesse, il New Scientist non è esattamente una grande rivista scientifica, ma un simpatico magazine divulgativo. Williams riempie due pagine di conti fitti per risolvere un’equazione di diffusione del calore alla portata di un qualunque studente del terz’anno di fisica. Poi ottiene la formula finale. Che è quel giusto equilibrio fra semplicità e complicazione che fa la gioia del giornalista scientifico, e quindi ha successo sulle riviste divulgative. La cita perfino Peter Barham nel suo libro The science of cooking. Peccato che, con la cottura di un uovo vero, quella formula abbia ben poco a che fare e, alla prova dell’esperimento, i risultati siano disastrosi. Per capirlo, basterebbe leggere l’incipit dell’articolo di Williams: “Consider a spherical homogeneous egg of specific heat capacity c, density ρ, thermal conductivity κ and radius a (all constants).”

Per carità, è vero che Galileo ci ha insegnato che il libro della natura “è scritto in lingua matematica”. Ma una lingua bisogna anche saperla usare.  Altrimenti si fa la figura di quel giovane cuoco che, poco tempo fa, mi sciorinava i nomi di tutte le proteine contenute in un fagiolo. –E che te ne fai di tutti quei nomi? – gli chiedo. – Mi servono per capire come è fatto il fagiolo-. – Ma sai che differenza c’è tra quelle proteine? Sai a che temperatura coagulano e quali sono emulsionanti?- Ovviamente non lo sapeva. –Vedi –gli dico – è come se tu avessi imparato a memoria  le parole di un vocabolario senza preoccuparti di capirne il significato. Una persona che conosce un centesimo delle parole che sai tu, ma che le sa usare, può scrivere un romanzo. Tu puoi solo scrivere un elenco.-

Anche nella “lingua matematica” si possono seguire stili diversi. Il migliore, come sempre, è il più conciso. C’è chi impiega due pagine per dire quello che, uno scrittore più capace, comunica in tre righe.  Abbiamo generazioni di laureati e dottorandi che riempiono di formule fitte e illeggibili decine di slides di PowerPoint  annoiando a morte i poveri spettatori. Da parte mia, ho subito fin dal liceo il fascino di un libro meraviglioso, che si intitola “L’evoluzione della fisica”. Il libro racconta tutta la fisica, dalle origini alla relatività e alla teoria dei quanti, senza usare formule. Gli autori, nella prefazione, ci informano che gli scienziati veri, quando parlano fra loro, usano concetti, più che formule. Gli autori si chiamano Albert Einstein e Leopold Infeld. 
Purtroppo, nonostante la fama, in pochi li seguono.

Qualche anno fa, pure un mio collega è caduto nella trappola di Williams. Si è dilettato a ricavare la formula per il tempo di cottura degli spaghetti. Ovviamente la formula ottenuta non ha nulla a che fare con gli spaghetti veri che bollono nella pentola. Funziona bene per un tondino di ferro infinito immerso in un pentola infinita, piena d’acqua a cento gradi che, invece di bollire, sta ferma immobile. E poi, invece di descrivere una cottura, descrive un riscaldamento, che è tutt'altra cosa (se i miei 22 lettori sono interessati, possiamo tornare sull'argomento). Ma il fascino delle funzioni di Bessel è un’irresistibile sirena ammaliatrice…

Io le funzioni di Bessel le uso dall’84. 
Ma, per vedere se gli spaghetti sono cotti, non ho l’abitudine di risolvere equazioni differenziali. 
Assaggio.

La scienza serve a capire un po' meglio il mondo e a semplificarci la vita.

Quando è incomprensibile e complicata, la scienza è stupida.




sabato 13 ottobre 2012

L'unione fa la forza


Non mi sono mai piaciute le lezioni troppo preparate.

Nato e cresciuto in una famiglia d’insegnanti, ho imparato fin da ragazzino che, prima di spiegare qualunque cosa, devo guardare in faccia chi mi sta davanti, capire chi è, cosa sa, cosa si aspetta da me e come glielo posso raccontare. Così, ogni volta che cambio pubblico, è una nuova avventura. Lo sanno bene i miei allievi e assistenti cuochi, perché di norma invento e improvviso sul campo qualche piatto nuovo. Non sempre sono il massimo, il loro ruolo è soprattutto didattico. Ma, ogni tanto capita che mi piacciono davvero, e torno a rimangiarli. Allora prendo nota e trasferisco nella mia collezione personale.

 E’ successo anche la settimana scorsa, e ora ve lo racconto.

La storia, a dire il vero, comincia cinque anni fa. Stavo assistendo Roberta nella preparazione del Pinzirò per un evento pubblico, e mi sono ritrovato a disposizione un olio d’oliva extravergine, troppo scuro, troppo profumato, troppo intenso. Il Pinzirò è un pinzimonio in calice in cui i sali giocano il ruolo di protagonisti. Dico Sali, perché si tratta di diverse versioni del sale comune, colorato, aromatizzato, acidificato in tanti modi diversi, che vengono miscelate sul fondo del bicchiere seguendo figure artistiche. L’olio non deve nascondere i colori dei sali, né coprire i loro aromi delicati. Li deve assecondare, completare, migliorare.

Non c’era la possibilità di cambiare olio d’oliva e dovevo risolvere la situazione in una decina di minuti, perché i tempi erano stretti. Allora mandai un aiutante a comprare un olio di semi neutro e trasparente e iniziai a miscelare e bilanciare. I grassi gastronomici si fondono perfettamente tra di loro. Sono solitamente miscele di tanti trigliceridi diversi, per cui, mescolandoli, otteniamo semplicemente una miscela di trigliceridi più ricca e complessa, con proprietà intermedie rispetto ai componenti.  L’olio di semi serviva a rendere il colore più chiaro e trasparente, l’aroma più delicato, elegante, raffinato, e la testura più fluida e adatta a formare una sospensione densa col sale, con le proprietà di un fluido non-newtoniano dilatante: un materiale perfetto per realizzare le decorazioni artistiche che vi dicevo.

Il risultato fu un successo pieno. Tra l’altro nessuno degli invitati, tutti esperti degustatori e critici, notò che si trattava di una miscela. Tutt'altro  tutti sostennero che un olio d’oliva tanto elegante l’avevano assaggiato raramente. La cosa non mi stupì, per i motivi che vi dirò più tardi.

Ora facciamo un salto nel tempo e veniamo alla settimana scorsa. La lezione verteva proprio sulle miscele di grassi, e su come si potesse ottenere una consistenza cremosa e spalmabile miscelando un grasso solido e un grasso liquido. Le preparazioni ottenute in questo modo sono fantastiche, perché sono perfettamente stabili e non possono impazzire. Si possono aromatizzare a piacimento, ma non salare, zuccherare o acidificare, a causa della natura idrofobica dei grassi. Dopo aver preparato una morbida crema miscelando olio d’oliva intenso e burro di cacao, volevo preparare un piatto che gli studenti potessero assaggiare e che avesse una giustificazione gastronomica.  Così chiesi: -Dove vi piacerebbe avere l’olio d’oliva cremoso anziché liquido?–  
Qualcuno azzardò: -Sulla bruschetta-

Sulla bruschetta l’olio scivola da tutte le parti e, se non fosse per la porosità del pane che lo assorbe, ne resterebbe ben poco. Al di là del sapore e della consistenza, il pane nella bruschetta è indispensabile per catturare l’olio.

-Bene, faremo la bruschetta senza pane. –

Tagliamo a spicchi dei bei pomodorini sodi. Spremiamo un po’ aglio nella crema d’olio d’oliva. Poi disperdiamo al suo interno un po’ di scaglie croccanti di sale di Maldon, che non si sciolgono per la già citata idrofobicità. Spalmiamo sullo spicchio e rifiniamo con una foglia di basilico. Assaggiamo. Ci piace. In due minuti finiamo l’intero vassoio.

Qualche purista potrebbe inorridire di fronte alle miscele. Ma chi l’ha detto che i grassi vanno usati in purezza? Chi l’ha detto che i  mono origine  sono meglio dei blend? Ultimamente, nel mondo gastronomico, si è diffusa troppa ideologia, senza basi né scientifiche, né estetiche.

 Assaggiate sempre, prima di parlare.

Vedrete che l’unione fa la forza!



Pinzirò
Bruschette senza pane