martedì 27 novembre 2012

Ex falso quodlibet. Fatti e misfatti del food pairing.


Oggi è un giorno felice, perché ho ritrovato un libro speciale, che stavo cercando da tre mesi. Dov'era?  Nella biblioteca di casa, ovviamente. Sapevo che doveva essere lì. Ma è un libricino piccolo piccolo, e si era nascosto tra due volumoni, che lo schiacciavano come un sandwich. Chi conosce la mia libreria mi capisce. Non mi piace catalogare i libri, né disporli secondo un ordine razionale prestabilito. Preferisco la collocazione sentimentale, figlia delle emozioni e dei ricordi. Ogni sera me li guardo e li coccolo a turno. Li conosco uno ad uno, ma non mi sono mai sognato di contarli. Da una vaga stima so che sono tra cinque e seimila, ma il numero non è importante. Importa quello che raccontano e ciò che hanno significato per me.

Il volumetto ritrovato ha significato tanto. Per comprarlo a una bancarella, quand'ero studente, avevo sacrificato le poche lire che tenevo in tasca, rinunciando ad un aperitivo con gli amici. Il fascino era irresistibile. L’unica traduzione italiana, dall'originale russo, uscita nel 1965 e straesaurita. Il titolo, “Errori nelle dimostrazioni in geometria”, potrebbe far pensare a un pedante manuale scolastico. Ma, se inizi a leggerlo, capisci che il discorso è molto più sottile. Attraverso un incalzare di esempi sempre più raffinati, ti fa vedere come dimostrazioni apparentemente perfette possano portare a risultati palesemente assurdi. Solo un’analisi approfondita ti può svelare dove sta l’inghippo. E si tratta sempre di un piccolissimo dettaglio, a volte dimenticato, a volte trascurato, a volte dato per scontato in modo acritico.

È un libro che mi ha insegnato tanto. Mi ha fatto capire che nella scienza non si può barare. Che le fondamenta poco solide non si possono nascondere dietro formalismi pomposi. Che la strada giusta è una, ma le deviazioni possibili sono innumerevoli.

Mi ero messo a cercarlo, dopo che mi era capitato sotto gli occhi un articolo, che riassumeva il dibattito più recente sul food pairing, una teoria che non sta in piedi, ma che un’abile operazione di marketing ha fatto diventare anche troppo popolare. Detto in due parole, secondo il food pairing, si abbinano bene due ingredienti che hanno in comune molti composti aromatici. Non vi sembra l’enunciato di una teoria scientifica, vero? E infatti non lo è. Ma in giro non si trova nulla di più preciso di frasi come questa. Nemmeno sul sito dei promotori. E, allora, cosa diavolo è questo food pairing? Per farvelo capire, comincio a raccontarvi la sua storia, che ho vissuto da vicino fin dall'inizio.

In questo racconto, compaiono quattro protagonisti essenziali, che chiameremo lo scienziato, lo chef, il businessman e l’advertiser.

Il primo si chiama François Benzi ed è un chimico della Firmenich, uno dei maggiori produttori d’aromi a livello internazionale, con sede in Svizzera.

Benzi viene al workshop di Gastronomia Molecolare di Erice del ’99, dedicato agli aromi, e conduce un dibattito sugli abbinamenti. Ci si sta chiedendo se possono essere elaborate regole scientifiche per combinare i cibi fra di loro.  Benzi racconta di aver constatato  che il fegato di maiale e il gelsomino si abbinano bene, e che entrambi condividono un composto aromatico chiamato indolo. Osservazione interessante, ma tutto finisce lì.

Erice 2001: entra in scena lo chef. Partecipa per la prima volta al workshop Heston Blumenthal, stella nascente della cucina anglosassone. Ci fa assaggiare i suoi esperimenti su uno strano abbinamento che ha trovato interessante: cioccolato bianco e caviale. Di nuovo: interessante, ma la cosa non va oltre, per il momento. Chi, come il sottoscritto, era presente anche al workshop precedente, si ricorda dell’intervento di Benzi (che a questa edizione manca) e gliene parla.

Terzo atto: Heston si mette in contatto con Benzi, che trova che cioccolato bianco e caviale condividono pure loro un composto aromatico importante, la trimetilamina. A questo punto gli indizi sono due e la storia sembra farsi interessante. Benzi fornisce a Heston un database commerciale (il VCF 2000) che riporta i composti aromatici contenuti nei principali alimenti (e che costa carissimo!) e il gioco comincia. Lo chef utilizza il database, per individuare coppie inconsuete di ingredienti, che condividono composti aromatici, e si diverte ad inventare piatti basati su questi abbinamenti. Tutto esce dall’ambiente riservato della gastronomia molecolare nel 2002, quando Heston pubblica un articolo entusiastico su The Guardian, intitolato “Weird but wonderful”. Negli anni successivi Blumenthal scala a balzi le classifiche dei migliori ristoranti del mondo e, nel 2005, arriva primo nella famosa Top 50.

Sapete cosa significa essere primi al mondo? Improvvisamente decuplica l’interesse dei media per tutto quello che sta facendo. La sua fama varca i confini del Regno Unito, e tutto il mondo si incuriosisce leggendo dei suoi strani abbinamenti.

E’ in questa fase che entra in gioco, sommessamente, il businessman. 

Bernard Lahousse è un bioingegnere belga, appassionato di gastronomia, che nel 2006 crea il blog Food for Design, in cui si occupa di vari argomenti legati al cibo e alla sua presentazione. Nel 2007 scatta l’innamoramento per il food pairing. Dopo un incontro con Benzi, decide di creare un nuovo sito, foodpairing.com, in cui rappresentare, con una vesta grafica molto chiara e piacevole, le affinità aromatiche fra i vari cibi. Il sito viene presentato ufficialmente all’edizione 2007 di Lo Mejor de la Gastronomia. Nel frattempo, si innamora della causa anche Martin Lersch, chimico norvegese, autore del blog di gastronomia molecolare Khymos. Lersch inizia a lanciare sul web delle “sfide” periodiche, in ciascuna delle quali propone una coppia “inconsueta” di ingredienti con elevata affinità aromatica e chiede al pubblico di inventare piatti basati su quell’abbinamento. Martin diventa l’advertiser, che aumenta incredibilmente la popolarità del tema.

Lahousse presenta il food pairing a Lo mejor de la Gastronomia anche nel 2008, ma per sfondare ci vuole qualcosa di più. In quello stesso anno, smette di pubblicare su Food for Design e si concentra solo su foodpairing.com. Nel 2009 viene organizzato a Bruges (Belgio) un nuovo, ennesimo, congresso di cucina. Si chiama The Flemish Primitives. L’argomento principale è il food pairing e la star Heston Blumenthal.

Arriva il successo. Lahousse fonda la società commerciale Sense for Taste e trasforma foodpairing.com in un sito a pagamento, che offre anche consulenze a cuochi e industrie, e cita Blumenthal come testimonial d’eccezione.

Per ora fermiamoci qui. E la scienza dov'è? - chiederete. Ottima domanda. La scienza serve solo per la compilazione del database di aromi. O meglio, servono gli strumenti scientifici, i cromatografi. Il resto vaga nel mondo delle pure ipotesi. Come l’oroscopo.

Anche in astrologia un po’ di scienza c’è: serve a prevedere le posizioni degli astri. Se vi interessano, esistono anche ottimi programmi per computer che le calcolano e le rappresentano con colori bellissimi. Ma l’ipotesi che gli astri, in quelle posizioni, influenzino le nostre vite, con la scienza ha ben poco a che fare.

Allo stesso modo, non esiste nessun motivo scientifico per dire che, se due cibi condividono una quantità significativa di composti aromatici, allora stanno bene insieme. Nessuno lo ha mai dimostrato. Ma nessuno ha mai dimostrato nemmeno il contrario. Per forza! Non si dimostrano né l’uno né l’altro, perché l’affermazione non ha nessun carattere di necessità: a volte è vera, a volte no. Esattamente come l’oroscopo: a volte (poche) ci prende, a volte no. È come se prendessi l’affermazione “Chi si chiama Giovanni ha i capelli neri”. L’affermazione in sé è sbagliata, ma ci sono casi particolari in cui è verissima. Se poi restringo il mio campione statistico alla Sicilia, magari questi casi sono anche più frequenti… Ma l’affermazione resta falsa. Se vi concentrate sui casi positivi, potete anche crederci, ma la scienza deve vagliarli tutti.

Fin qui, però, siamo rimasti nel generico. Vediamoli anche in dettaglio, i punti deboli del food pairing. È come sparare sulla croce rossa, lo so, ma quando ci vuole, ci vuole.

Primo (è solo un assaggio, in realtà): cosa vuol dire che due ingredienti condividono importanti composti aromatici (sul sito foodpairing.com si usa l’espressione “major”)? Che ne condividono un grande numero, o grandi quantità? Nessuno l’ha mai specificato.

Secondo: vogliamo veramente dare per scontato che per abbinare due cibi bastano gli aromi? E i sapori non contano nulla? E le testure? Ovviamente, gli aromi non bastano. Potremmo dire che se tutto il resto è ben bilanciato, allora, per avere anche la parte aromatica armonica, dobbiamo applicare il food pairing. Anzi, possiamo, non dobbiamo, come vedremo dopo. Ma, purtroppo, le cose non sono così semplici. Chi capisce qualcosa di cucina sa che gli aromi, i sapori, le testure e anche i colori si influenzano a vicenda. Non avete mai sentito parlare di “sinestesia dei sensi”? Se vogliamo essere coerenti, dobbiamo interpretare il food pairing come teoria di abbinamento di soli aromi, non di cibi! Le liste che compaiono nei database, contengono solo nomi e percentuali di composti aromatici, ignorando totalmente tutto il resto. Dunque, la corrispondenza è tra ingrediente e miscela bilanciata di aromi. Come è ovvio, non è una corrispondenza biunivoca: un cibo è decisamente qualcosa di più rispetto a una miscela d’aromi.

Terzo: prendiamola pure come una teoria buona per abbinare miscele di aromi. L’affermazione “se due miscele hanno una significativa parte comune, allora stanno bene insieme”, implica anche l’impossibilità di ottenere un buon abbinamento con miscele che non hanno nulla in comune? Ovviamente no! E qui non c’è bisogno di fare esperimenti. Prendete una miscela buona, e dividete i suoi ingredienti in due sottomiscele che non hanno nulla in comune e avrete immediatamente un controesempio. Se volete un altro esempio più gastronomico, prendete l’abbinamento pomodoro-cannella, caratteristico della cucina greca, e inadatto secondo il food pairing.

Quarto: è sempre vero che due miscele con grande sovrapposizione di componenti, se vengono combinate danno un buon effetto? Detta così, ovviamente no! Prendete una bottiglia di vino buono e combinatela con una bottiglia uguale, a cui avete aggiunto una puzzetta di tappo. Il risultato è orribile, anche se la sovrapposizione è enorme! Potremmo modificare l’enunciato richiedendo che anche le due miscele di partenza devono avere un buon profumo. Ma non risolviamo granché. Infatti…

Quinto: ma se diciamo che due miscele stanno bene insieme, questo dev'essere vero senza aggiungere altri ingredienti al piatto, altrimenti stiamo barando! Chi vi scrive, bilancia i piatti per i cuochi e per le industrie, da vent'anni  E vi assicura che aggiungendo opportune quantità di altri ingredienti si riesce praticamente sempre ad ottenere un risultato soddisfacente. Per contro, se usiamo solo due ingredienti, è molto più difficile ottenere un buon abbinamento e, per farlo, è quasi sempre necessario scegliere dosaggi ben studiati dell’uno e dell’altro. Di questo il food pairing non parla proprio. Guardatevi la demo sul sito: vi danno un’ostrica e un kiwi, e poi vi dicono “Adesso sono cavoli vostri! Noi vi diamo l’ispirazione, ma per ottenere un buon piatto dovete essere bravi.”. Ora, se uno chef è bravo di suo, non ha particolarmente bisogno di quell'ispirazione  Come tutti gli artisti, la può trovare dentro di sé, o osservando le nuvole, il mare, una pozzanghera, o una bicicletta. Ma dev'essere bravo davvero. Fulvio Pierangelini preparava un capolavoro di bilanciamento, le Capesante con la Mortadella, senza consultare nessun database. Ma solo lui è in grado di bilanciare quel piatto. La quantità di mortadella è piccolissima e decisiva: se ne mettete poca non si sente, se è troppa, sa tutto di maiale. Fulvio sa come bilanciare. Il food pairing vi dice: “Arrangiatevi!”.

Il cioccolato bianco con caviale di Blumenthal, che ho assaggiato ad Erice nel 2001, non era entusiasmante. Colpiva la novità dell’accostamento, ma tutto finiva lì. Poi Heston, che è un vero mago, è riuscito a bilanciarlo e a renderlo un piatto interessante, usando solo cioccolato e caviale. Ma, nelle altre ricette pubblicate in Weird but wonderful, è costretto ad introdurre diversi ingredienti aggiuntivi per bilanciare le coppie selezionate sulla base del food pairing.
Pensate che sia finita? No, no, mancano ancora i piatti forti…

Anche i database più raffinati e costosi, contengono comunque dei dati medi sulla composizione aromatica dei cibi; non possono certo analizzare l’ingrediente che avete sottomano ora. Il problema è che ogni ingrediente è un mondo a sé. Che senso ha guardare la composizione media di un’erba aromatica, se so benissimo che l’aroma dipende da mille fattori diversi: dal terreno di coltura, dall'esposizione al sole, dal clima, perfino dall'ora del giorno in cui viene raccolta? Se la ricchezza degli aromi dei cibi si potesse riassumere in un database, potremmo fare a meno di sommelier e degustatori. Ma se gli aromi di un vino cambiano a seconda dell’annata, del produttore, della conservazione, della botte e della bottiglia, coma diavolo posso pensare che un database di aromi mi dia un’informazione gastronomicamente significativa? Sul database trovate basilico e trovate olio d’oliva. Avete mai provato a fare il pesto ligure con olio calabrese e basilico siciliano?

Adesso parlo a chi ama il vino. A chi capisce che è qualcosa di più di una miscela di sostanze complesse. Che è frutto della vite, del lavoro dell’uomo, e di molto altro. Amici miei, gli aromi contenuti in una bottiglia quando la stappate, da quel momento in poi avranno storie diverse. Se l’annata è lontana, i primi li lasciate andare, perché non sono tanto buoni. Fate ossigenare, lasciate respirare il vino nel bicchiere. Qualche composto se ne va, qualcun altro si trasforma, altri ancora, lentamente, si sprigionano dalle viscere più profonde del liquido. Sorseggiate, aspettate, riassaggiate… Vi state godendo un film, non una foto. Secondo il database, invece, state tracannando a collo la bottiglia appena stappata, perché lui considera tutto insieme, senza possibilità d’appello.

E poi… e poi sapete bene che l’aroma di quel vino, per chi lo beve, cambia quando si cambia il bicchiere, quando cambia la stanza in cui si beve, quando cambia la compagnia. Il buono da mangiare, il buono da bere, dipendono da noi, e non solo dal cibo e dal vino. Rivendico a gran voce che stabilire se una cosa mi piace o no è una mia scelta libera. Che posso anche cambiare gusti nel tempo e nelle situazioni. Ripeto, senza stancarmi, le parole di Lévi-Strauss: “Il ne sut pas qu’un aliment soit bon à manger, encore faut-il qu’il soit bon à penser"

L’estetica moderna ha due secoli ormai. Pensavo che fosse appurato che il bello e il buono (da mangiare) non sono proprietà intrinseche degli oggetti. Non sarebbe male se molti esperti sottraessero una fettina del loro tempo al disegno di diagrammi colorati, per riprendere in mano un bignamino di filosofia alla voce Kant.  Anzi, Immanuel Kant. Meglio specificare. In certi ambienti, Diabolik è più noto della Critica del Giudizio.

Il food pairing, in realtà non è una teoria scientifica, nemmeno nelle intenzioni di chi la vende. Se leggete la sua presentazione, sul sito omonimo, noterete che viene proposta semplicemente come strumento di ispirazione culinaria. In tutto questo, Lahousse è decisamente corretto. E se non è una teoria scientifica, uno scienziato non deve nemmeno preoccuparsi di verificarla. Evviva.

A dire il vero, qualcuno a verificarla ci ha provato. Un anno fa, serissimi scienziati pubblicarono, su un’autorevole rivista, un articolo di cui, alle allegre tavolate dei gourmet, si ride ancora oggi. L’idea consisteva nell'analizzare tante ricette, di tutto il mondo, per verificare se gli ingredienti, che condividevano più composti aromatici, comparivano più frequentemente in abbinamento. Il risultato, ripreso con rullo di tamburi dai soliti giornalisti scientifici, pareva dimostrare che ciò accadeva nella cucina occidentale, ma non in quella orientale. Ora, voi vi chiederete da dove siano state attinte le ricette analizzate. Scordatevi Artusi o Escoffier. Si tratta di tre siti web, due americani e uno coreano. Si tratta di tre siti web, due americani e uno coreano, dove un appassionato qualunque può caricare la sua creazione preferita. Così che vi ritrovate ricette tipicissime, come Italian Tacos e Italian Enchiladas. Come dice Andrea Grignaffini, che oltre a brillare nella critica enogastronomica è un valente cronista sportivo, “E’ come andare a studiare il calcio italiano analizzando il torneo interparrocchiale Don Bosco”. E come mai, domanderete, per la cucina orientale si è scelto il sito coreano, scritto solo in coreano, ignorando le secolari tradizioni di Cina e Giappone? Non state ad arrovellarvi troppo. La risposta è elementare: uno degli autori viene dalla Corea.

Ma questo è solo l’antipasto. Tra i bei grafici variopinti, che illustrano i risultati, lampeggia un abbinamento ottimale fantastico: Parmesan cheese e white wine. Vedendolo, mi sorse un dubbio amletico. Che sarà mai quel formaggio? Un Vacche Rosse di montagna o il “fresh Parmesan cheese”, che fanno in New Jersey e sembra una saponetta? Questione non oziosa, per chi si fa un’ora di macchina su strade tortuose, per andarlo a comprare nel casello buono…

E il white wine? Tavernello o Montrachet? Scesi in cantina e fissai disilluso le sette bottiglie superstiti di Barolo del ’90. “Traditrici! Mi avete ingannato! Vi ho curato con amore per tanti anni ed ora scopro che avete gli stessi aromi di un red wine qualunque, come quella chiavica del Key-Aunty [onomatopeica imitazione del Chianti, made in USA]. “.
Amici miei! Cari compagni di lieti calici! Abbiamo buttato i nostri anni migliori! Che resterà delle nostre epiche verticali? Delle indimenticabili orizzontali di vendemmie mitiche? Arriva la scienza e ci dice che è tutto lo stesso, anonimo, “white whine”. Tanto valeva sbronzarsi di Galestro!

Ma, se andiamo a spulciare più a fondo, scopriamo che, come ingredienti, compaiono addirittura cheese e wine, puri e semplici. Dovremo rinunciare pure al vecchio oste che ci chiede: “Bianco o rosso?”?

In realtà, mentre gli scienziati ancora si ingegnavano a studiare il sesso degli angeli, nel mondo dell’avanguardia la situazione non era più quella di prima. Heston Blumenthal, che viene ancora citato su foodpairing.com come il principale testimonial, ma che di cucina capisce, aveva cambiato idea.  

Il 19 agosto 2010 Heston pubblica sul Times un articolo intitolato “Naivety in the Kitchen Can Lead to Great Inventions, But Too Much Can Take You to Some Strange Places,” (L’ingenuità in cucina può portare a grandi invenzioni, ma quand’è troppa può trascinarti in strani posti”) che viene quasi tenuto nascosto. In quell’articolo scrive:

Quando il mio amico François Benzi, esperto di aromi, mi parlò per la prima volta di un database che mostra quali molecole sono presenti in un particolare cibo, sobbalzai pensando alla possibilità di scovare tantissime nuove ed eccitanti combinazioni di ingredienti. In epoca medievale, gli scienziati cercavano la pietra filosofale, una sostanza capace di trasformare i metalli in oro. Per un attimo mi sentii come se mi fossi imbattuto nel suo equivalente culinario. Potevo scrivere “benzaldeide” sulla tastiera e lo schermo mi rivelava ogni sorta di fantastiche possibilità: marzapane, pesche, mandorle, ciliegie…
Guardando indietro a quand’ero più giovane, sono quasi imbarazzato del mio entusiasmo presuntuoso, non ultimo perché ora so che un database di molecole non è né una scorciatoia per una combinazione vincente di aromi, né un modo sicuro per ottenerla. Ogni cibo è composto da migliaia di molecole diverse. Che due ingredienti abbiano un composto in comune è una ben debole giustificazione per la loro compatibilità. Se avessi saputo allora quello che so adesso, probabilmente non avrei mai provato questo metodo del food pairing: semplicemente, ci sono troppe ragioni perché non funzioni. Ma accadde che, nella mia ingenuità, ne rimanessi catturato.

HESTON, TU SEI UN GRANDE. Punto.

Per ristorarmi l’animo dalla pseudoscienza, torno fra i miei libri. 
Prendo Ossi di seppia e apro su due versi che dicono tutto:

Non domandarci la formula che mondi possa aprirti,
sì qualche storta sillaba e secca come un ramo.

Poi scendo in cantina. Mi imbatto in una bottiglia di Château Musar 1989.

La contemplo, a lungo, e alla fine le dico: “Non ti lascerò cadere nelle mani dei barbari!”.

Stappo. Verso. Inizio a sorseggiare.

À la santé !





20 commenti:

  1. Bellissimo articolo. La cosa paradossale del food pairing è che quando Blumenthal ci credeva il sito di riferimento era consultabile gratuitamente, e adesso che Blumenthal non ci crede più, il sito è diventato a pagamento!

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  2. Caro Sebastiano, Heston si è chiamato fuori POCO DOPO che il sito è diventato a pagamento. Lascio a te la chiave di lettura...

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  3. Caro Davide, concordo che non sia una teoria scientifica (ne ho parlato un po' a Genova al festival e l'ho definita "molto meno di una teoria"). Però come "ipotesi di lavoro" la trovo intrigante, giusto per capire se sono solo coincidenze, un banale effetto statistico, o magari c'è qualche indizio di un meccanismo neurofisiologico del funzionamento dell'olfatto (tralasciando quindi come dici tu sapori, testure etc) di cui sappiamo ancora molto poco.
    Tralasciando la parte puramente commerciale, è interessante cercare di capire perchè (ammesso che si possa trovarlo) certe cose piacciono e altre meno, depurando ovviamente le influenze culturali (anche questo, ammesso sia possibile)

    Ciao Dario

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  4. Mia nonna che per anni mi ha nutrito con cardi gobbi e bagna cauda, mi ha insegnato molto più di quanto possa imparare dal food pairing.
    Posso accostare cioccolato e caviale, ma se non emoziona, un piatto perde ogni valore, quando saremo robot e non ci emozioneremo più, probabilmente sballeremo per un accostamento scientifico di food pairing.

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    1. Perfettamente d'accordo, Stefano.
      Se fossimo dei robot, dotati di naso artificiale e di un software che di dice che cosa è buono e cosa è bello, allora la teoria potrebbe funzionare.
      Ma io credo, come te, che noi siamo qualcosa di più...

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  5. Caro Dario,
    sono convinto che la scienza debba cercare di capire il più possibile, ma non può pretendere di spiegare tutto. Per questo non mi preoccupo troppo dei tentativi di spiegazione scientifica dei gusti umani e dell'estetica. Qui entrano in gioco fattori troppo complessi per le nostre conoscenze attuali. Ogni uomo, in quanto attore del giudizio estetico, è un mondo a sé e come tale andrebbe analizzato. Ovviamente, se ormai sappiamo bene che non è possibile sperare di ottenere previsioni del tempo precise oltre le due settimane, perché per farlo dovremmo misurare un numero di grandezze al di fuori della nostra portata, non mi sconvolge che la scienza non sia in grado di prevedere tutto il comportamento umano. Ci sono poi questioni epistemologiche più profonde, chiaramente, che coinvolgono lo sdoppiamento fra l'uomo soggetto sperimentatore e l'uomo oggetto scientifico. Ovvero fra il soggetto conoscente e l'oggetto della conoscenza.
    Ma qui non mi sento di doverle invocare.
    Mi basta il parere dei tutti i grandi chef che, dopo aver provato l'ipotesi, l'hanno mollata perché hanno visto che, per la loro cucina, non serviva a niente.

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    1. Il punto, a mio parere, è che "l'ipotesi" (quella mollata) non è neanche a livello di ipotesi. Come minimo servirebbe una qualche metrica per confrontare componenti e ricette, condizione necessaria per poter effettuare dei test di correlazione o analisi statistiche un po' più robuste. Quindi non mi stupisce che quei semplici grafici a pagamento siano stati abbandonati. Questo però non significa che non ci possa essere, magari, un meccanismo più fondamentale che ancora non conosciamo, analogo ad esempio a quello dei sapori, per cui ci sono sapori che piacciono a livello innato, per motivi evoluzionistici ben noti (il dolce ad esempio), e altri che non piacciono e che ce li facciamo piacere solo con un training culturare (l'amaro ad esempio). Trovo interessante il chiedersi se meccanismi simili ci siano anche per gli odori oppure no, o anche il solo capire se ci sono più meccanismi indipendenti all'opera.

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    2. D'accordissimo sul fatto che, scientificamente, il food pairing non può nemmeno essere definita un'ipotesi.
      Quanto all'origine dei nostri gusti riguardo i sapori, io la vedo così: il dato di fatto è che ci piacciono sia il dolce che l'amaro. Le teorie evoluzioniste sulle motivazioni sono affascinanti ma, dal punto di vista delle "scienze dure" difficilmente si possono considerare verificabili o falsificabili...

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  6. Stupendo questo articolo Davide!!
    Condivido ogni parola e credo che il discorso di Dario non possa neanche lontanamente stare in piedi perche' prima di tutto perche' la materia dibattuta e' troppo soggettiva...ok, in linea generale piace il dolce ma non e' sempre cosi'...e lo stesso vale per l'amaro. O nel caso del food pairing, con elevate probabilita' ci sara' qualcuno a cui il caviale con il cioccolato non piace. Insomma, credo, diversamente da Dario, che sia una materia sulla quale abbia poco senso indagare. E' invece piu' interessante notare il successo che ha portato alle persone che hanno portato avanti questa idea. La conclusione che si puo' trarre a mio parere e' che un buon approccio a livello commerciale e di marketing riesce ad influenzare persino l'apparato sensoriale...e questo e' piu' interessante da studiare del foodpairing.

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  7. Non voglio discutere di food pairing, di cibo, di vino o altro (a questo proposito mi fido ciecamente del professor Bressanini) ma dell'affermazione che i gusti non hanno spiegazione evolutiva. Ci sono fior fiore di dimostrazioni che alcuni gusti (dolce e salato essenzialmente) sono graditi e anzi ricercati dalla maggior parte delle specie animali, anche quelle più vicine all'uomo come le antropomorfe. Ci sono anche ragioni fisiologiche e metaboliche che spingono a preferire cibi dolci o salati rispetto a quelli amati. I primi sono piuttosto rari in natura e indispensabili per il metabolismo, quelli amari segnalano nella maggiore parte dei casi frutti o altro di velenoso. Diciamo che la selezione naturale avrebbe tagliato fuori chi amava i cibi amari. Che poi la cultura abbia modificato i gusti ci sta, ma anche qui ci sono spiegazioni che però sbordano un po' nella psicologia evoluzionistica e che quindi sono poco accolti da molto studiosi. A risentirci.

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  8. Caro Marco,
    se leggi attentamente, non ho detto che non esistono "dimostrazioni evoluzioniste", ma semplicemente che, dal punto di vista delle cosiddette "scienze dure" (come la fisica, che è la mia disciplina) non sono considerate dimostrazioni.
    Per il resto, in quanto scienziato, non mi fido ciecamente di nulla. Sai, la scienza moderna è iniziata proprio con Galileo che si è opposto al principio d'autorità...

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  9. Non ti sto neppure a rispondere, tanto l'affermazione assomiglia a quelle di Zichichi a proposito della teoria dell'evoluzione. Vuoi anche tu la formula della selezione naturale?
    Chi ha mai detto che io mi fido, inoltre? Ti ho solo spiegato cosa ne pensano gli evoluzionisti. Tutto qua.

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  10. Marco, io non ho detto che non credo alla teoria dell'evoluzione. Ho detto che sto analizzando i problemi dal punto di vista di altre scienze. Per me è assolutamente scontato che le diverse scienze abbiano aspetti in comune, ma non siano deducibili una dall'altra: ogni anno inizio i corsi di Fisica della Materia facendo leggere agli studenti "More is different" di Philip Anderson!

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  11. Davide, il punto credo che sia che quello che tu (o la fisica, non lo so) consideri come non dimostrato, è considerato dimostrato (o dimostrabile) dalla biologia che è la scienza che si occupa di quei fenomeni lì e quindi, nello specifico, ha più voce in capitolo delle altre.

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  12. Secondo me la discussione sta divergendo.
    Riepiloghiamo. Il punto di partenza era: esiste una teoria, o una metodologia che mi permette di stabilire se due cibi stanno o meno bene insieme?
    Penso che sulla risposta negativa siamo tutti abbastanza concordi.
    Poi ci chiediamo: è possibile che in futuro la troviamo? Su questo si possono dare mille risposte, perché non siamo profeti.
    Dal punto di vista puramente fisico o chimico, a me sembra abbastanza improbabile, ma questo è solo un punto di vista. Lo ripeto: non siamo profeti.
    La biologia, l'evoluzione, tutto quello che volete, possono senz'altro dire qualcosa, e qualcosa di interessante, senza dubbio.
    Non è comunque una spiegazione definitiva, perché, come tutti siamo pronti a riconoscere, poi entrano in gioco motivazioni di altro genere: antropologiche, psicologiche, culturali, e via così. E, se vogliamo capire le nostre scelte estetiche e gastronomiche, non possiamo prescindere da questi aspetti.
    Come vedete, ci siamo allontanati molto dalla base di partenza, che era la semplice presenza di certi composti chimici in una dato piatto.
    Alla fine,come accade, conoscendo cosa c'è nel piatto, non so dire a priori (in generale, ovviamente) se quel piatto è buono o no. Dipende sempre dalla persona che lo assaggia! E, molto spesso, da quando l'assaggia, dalla situazione in cui lo fa, dal suo stato d'animo...
    Questo, per me, è uno dei lati più affascinanti della gastronomia: il suo essere così profondamente umana.

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  13. A me pare però che dall'idea che le scienze possono non essere (o non possono essere ;-) deducibili una dall'altra, che condivido, discenda piuttosto che l'affermazione "questa o quella teoria evoluzionistica non sono verificabili/falsificabili dal punto di vista delle scienze dure" non è ne' falsa ne' vera: non ha senso. Se le scienze sono "incommensurabili" allora la verificabilità/falsificabilità di ogni disciplina va valutata nell'ambito del suo statuto, forte o debole che sia. E può darsi che sia quello che intendeva Davide? (bio*, perdonatemi, è un po' di solidarietà di casta)


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  14. Caro Stefano,
    forse stiamo iniziando a convergere. E sono convinto che alla fine convergeremo, perché il punto di vista scientifico è talmente onesto e chiaro che è difficile che i fraintendimenti durino a lungo.
    Certo che ogni scienza ha i suoi principi autonomi!
    Mutua anche elementi dalle altre, ma ha comunque sempre qualcosa di esclusivamente suo. Altrimenti, anziché essere una disciplina, sarebbe un sottosettore di un'altra.
    Questo, del resto, è il punto di vista di "More is different", un articolo che ho amato a prima vista, tanti anni fa.
    Quando dico che le teorie, che spiegano i gusti dal punto di vista dell'evoluzione, non sono verificabili dal punto di vista della fisica, in questo senso dico un'ovvietà. Ma mi serve dirla, per dichiarare che, sulla base della fisica e della chimica sole, non possiamo andare oltre.
    Dobbiamo tener conto dell'uomo, ovvero del soggetto degustante (fatemelo chiamare così, mi piace...).
    L'evoluzione parla dell'uomo. Va benissimo. Siamo già oltre le scienze dure. Poi dobbiamo considerare anche altre scienze meno dure ancora, come dicevo sopra. Non possiamo farne a meno.
    E mi piace molto che, discutendo quassù, rendiamo partecipi i lettori del fatto che le varie scienze, nel momento in cui definiscono e riconoscono i propri limiti, possono convivere in armonia ed aiutare a capire meglio il mondo che ci circonda.

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  15. Io mi sono soffermato solo sulla spiegazione (non dimostrazione) evolutiva delle preferenze alimentari. Del food pairing non so niente e mi importa poco. Ho solo cercato di far capire come l'evoluzione "spieghi" alcune preferenze alimentari - dolce e salato in particolare. E ho portato le pezze giustificative. Tutto qua. La contestazione sembrava non fosse d'accordo su questo. E ho risposto a tono.

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  16. Much Ado About Nothing?
    Facciamo che vi invito tutti a pranzo in laboratorio.
    Anzi: 8 dicembre alle 18.30, aperitivo "molecolare" all'Hub Cafè di Parma, preparato dai ragazzi del Lab.
    Vi aspetto!

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  17. Penso di avere rintracciato l'articolo degli scienziati cialtroni:

    'Flavor network and the principles of food pairing'

    Yong-Yeol Ahn, Sebastian E.Ahnert, James P.Bagrow, Albert-László Barabási

    Ho indovinato? ;-)

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