domenica 6 ottobre 2013

Cooking hackers: i pionieri.

Domattina ci sarà la cerimonia. 

Il Presidente dell’Académie Internationale de la Gastronomie mi consegnerà il Grand Prix de la Science de l’Alimentation.

 La motivazione, che già compare sugli annali, recita così: “Pionnier en recherches scientifiques culinaires”.

Mi diverte quella parola. Non avrei mai pensato di diventare un pioniere, nemmeno da ragazzino, quando guardavo i film western. Piuttosto, mi sono sempre considerato un hacker. Un hacker della cucina. Ovviamente, non nel senso di “pirata”, come insiste a suggerirmi il demenziale correttore di Word.  L’hacker, nel senso originale e più puro del  termine, è colui che,  trafficando e smanettando, scopre strade nuove ed escogita soluzioni inaspettate.  

Mi sono talmente innamorato di questa definizione che, da un anno a questa parte, inserisco “Cooking Hackers” nel titolo tutte le conferenze sulla storia della cucina molecolare. E anche domani non verrò meno all’usanza.  Il programma è già stampato: “Cooking hackers: l’epopea della cucina molecolare”.  

Scorro sullo schermo del computer il PowerPoint che ho usato l’altro giorno a Napoli. Mi soffermo su una pagina con tante foto. Sono volti di persone. Ci sono anch’io. Sono i pionieri, con dieci anni di meno. Gli hacker della cucina. I miei amici…

C’eravamo quasi tutti, a Murcia, nel 2004. Nasceva il grande movimento. La scuola spagnola e la scuola di Erice si fondevano in un’unica ondata di entusiasmo. Erano iniziati gli anni ruggenti. Erano gli anni delle coppie cuoco scienziato. Le riguardo una ad una sulla diapositiva. Pierre ed Hervé. Heston e Peter. Andoni e Raimundo. Ferran e Pere. Ettore ed io. Guardo la fila di sotto, quella degli scienziati. Come eravamo diversi tra noi... Due fisici, due chimici, un medico.

Hervé, con l’immancabile colletto alla guru, per evitare –mi diceva- di dover abbinare e annodare le cravatte. Alla fine delle grandi cene, quando riempivamo la sala e le bottiglie erano vuote, intonava “La bataille de Reichshoffen” e faceva saltare i commensali a cavalcioni delle sedie…

Peter, l’uomo dei pinguini. Chi non l’ha conosciuto quasi non ci crede. La passione sua e di Barbara per gli sfeniscidi è tanto viscerale che non li ho mai visti senza un vestito con un pinguino disegnato sopra (guardate la foto…).

Raimundo. Illustre ordinario di anatomia patologica e critico gastronomico inarrivabile e impietoso. Un mangiatore d’altri tempi. Un peso massimo. Che nostalgia dei nostri lunghi viaggi. “Siamo qui per fare turismo gastronomico” -  diceva alla reception. E, alla sera, la serie interminabile di gin tonic…

Pere, che va a cena al Bulli, parla con lo chef, entra in cucina, gli risolve in pochi minuti il problema della sferificazione del succo di mela e viene assunto… Era nel mio laboratorio in quel giorno di primavera del 2008, quando Santi partì all’attacco di Ferran e dei molecolari. Mi ricordo ancora le telefonate convulse: “E’ impazzito! E’ impazzito!”…

Tante volte mi sono chiesto cosa avevamo in comune,  al di là della passione per il cibo. Ma ora, riguardando quei volti familiari, è come se tutto mi diventasse chiaro.

Nessuno era giovanissimo, anzi. Eravamo tutti già piuttosto maturi, sia d’anni che di professione. Tanta esperienza e quel fatidico posto fisso che il ricercatore insegue a lungo come un miraggio. Nessuno di noi, prima d’allora, si era occupato di cibo per mestiere. Facevamo tutti altri mestieri. Facevamo ricerca di punta in altri settori, che nessuno aveva mai pensato di collegare alla cucina. D’improvviso, scoprimmo di avere  in mano strumenti potentissimi che gli studiosi tradizionali di cibo non conoscevano ancora. E non dovevamo usarli nei modi tradizionali. Potevamo permetterci di fare gli hacker…

In poche parole: eravamo meravigliosamente e infinitamente liberi.

Liberi dai condizionamenti della cosiddetta “comunità scientifica”. 
Liberi dalla necessità di pubblicare i risultati. 
Liberi dalle scartoffie accademiche.

Non dovevamo compilare moduli interminabili per chiedere fondi di ricerca. Le cucine dei grandi ristoranti ci mettevano a disposizione tutto ciò che potevamo desiderare.

Non dovevamo rendere conto di quel che facevamo a referee, direttori di ricerca, colleghi puntigliosi. Non c’era il burocrate di turno a valutare il tuo lavoro. Il nostro pubblico era diventato improvvisamente un altro: quello delle migliaia di cuochi e gourmet che accompagnavano con entusiasmo e passione la più grande rivoluzione gastronomica del secolo.
Era un sogno.

Entravamo dietro le quinte di uno spettacolo, che affascinava una moltitudine di persone appassionate e competenti.

Ed eravamo tutti amici. Nessuna rivalità. Ognuno ammirava il lavoro e le scoperte degli altri. Ci si raccontava tutto, onestamente e liberamente. I pionieri non hanno bisogno di competere. La terra da esplorare è sconfinata. Piuttosto, devono aiutarsi tra di loro, perché sono pochi e sono soli. Non conoscevamo quella parola idiota che molti politici, scienziati falliti, pii, teoreti, ti propinano come motore della ricerca e del progresso: la competizione. L’unico vocabolo sensato per noi era un altro: collaborazione.

Quegli anni di ricerca anarchica e istintiva produssero più innovazioni di qualunque altro periodo della storia della cucina. Non esistevano regole e protocolli. La conoscenza non era il fine, ma il mezzo per arrivare il più lontano possibile, prima di quel salto nel vuoto che ti porta nel terreno inesplorato. Che ti porta a fare l’esperimento di cui, nel profondo del tuo cuore, ignori il risultato. Lontanissimi da quell'idea di ricerca che hanno i finanziatori istituzionali, che ti chiedono di scrivere un progetto in cui già prevedi quello che otterrai…

Col senno di poi, fu proprio il tentativo di convogliare quell'ondata di novità informale nei canali consueti della ricerca, a creare problemi e a segnare la fine di un periodo magico. Il famigerato progetto INICON alla fine portò più danni che benefici. Ci guadagnarono tanto le industrie, ma la cucina molecolare iniziò a perdere fascino. Uno dei cuochi firmò un articolo su una rivista scientifica, insieme ad una schiera di tecnologi. Un articolo goffo, su una delle sue creazioni più insignificanti. Ma la colpa non era sua. Era di chi si illudeva di poter racchiudere, nel formato angusto e stereotipato di un articolo scientifico, la forza dirompente e le emozioni vive di una creazione d’alta cucina.

Torno, per un istante, con la mente al presente. Penso ai miei studenti, dottorandi e borsisti, che devono lottare e competere, sottoporsi al giudizio di impersonali commissioni, che li valutano in base a numerini  fantasiosi, che il pirla di turno ha deciso di ergere ad indicatori oggettivi di valore e qualità.

Non mi piace questo mondo, quest’idea della scienza. Non è quella che sognavo.

Meglio tornare ai ricordi e rituffarsi in quelle notti selvagge, dopo la chiusura delle cucine, con il gin tonic che scorre a fiumi mentre si parla e si assaggia, mentre mettendo insieme la microsteatosi e la teoria della percolazione scopriamo il segreto del foie gras sublime…

Cari amici degli anni ruggenti, siamo stati davvero fortunati.


Noi sì che ci siamo divertiti!



domenica 28 luglio 2013

Quella volta che la scienza

imparò dalla cucina




Ho un caro amico d’Oltralpe, che ritiene la Scienza superiore a tutto, e la cucina solo una piacevole applicazione dei suoi principii.

Un altro, cisalpino ed erudito, trova disgustoso che i cuochi moderni usino quel gel d’alghe, su cui i microbiologi coltivano i batteri.

Un altro ancora, giornalista, sostiene che solo grazie al genio di Ferran ora sappiamo che l’agar-agar è l’ingrediente giusto per le gelatine calde.

Per non parlare di quel mio vecchio professore, che ha iniziato ad arricciare il naso la prima volta che mi ha visto passare per il corridoio con una pentola in mano e, siccome non ho più smesso, si ritrova col muso irreversibilmente rincagnato.

A tutti costoro, voglio dedicare la storia, simpatica ed istruttiva, che sto per raccontarvi.  Ricostruita, com'è mio scrupolo ed uso, sui documenti originali.

Era luglio, luglio come adesso, e, nel Nordest dell’Italia ancora disunita, faceva un terribile caldo afoso. Per quanto, s’intende, potesse far caldo nel 1819, ovvero nel pieno del secolo più freddo del millennio. Il raccolto del mais dell’autunno precedente era stato fantastico e sulle tavole del popolo abbondava la polenta. E se ne faceva talmente tanta che poi durava due o tre giorni. Ovviamente fuori frigo, visto che John Gorrie non l’aveva ancora inventato.   Ora, voi moderni vi stupireste ritrovandovi servito, in una soffocante serata padana, un cibo considerato prettamente invernale. Ma, due secoli fa, la polenta era il pane quotidiano dei poveri e dei contadini. D’altra parte, il simpatico appellativo “polentoni”, una sua giustificazione storica la deve ben avere.

Immaginate dunque la strana sensazione che dovette provare il signor Borgato, “colono del territorio padovano”, quando, un bel giorno di prima estate, vide la sua polenta sanguinare.

Oggi, notando la comparsa di macchie rosse sulla polenta del giorno precedente, potremmo reagire in tanti modi. C’è chi, semplicemente, la getterebbe. Ci consulterebbe internet cercando spiegazioni. Chi chiamerebbe l’ASL. Ma, allora, si pensava più comunemente ad un prodigio o ad una maledizione. In entrambi i casi, la scelta era obbligata: chiamare il prete. Per l’occasione, si scomodò addirittura l’abate Melo. Ma, visto che il fenomeno non aveva nulla di soprannaturale, riti e benedizioni non sortirono alcun effetto. Anzi. Lo strano caso della polenta sanguinante si diffuse in altre case, suscitando spavento ma pure maldicenze: le malelingue attribuivano ai malcapitati contadini inconfessabili colpe, che avrebbero provocato quella curiosa punizione. Tra i più colpiti dal venticello della calunnia, le cronache ricordano un tale Antonio Pittarello di Legnaro, paese del padovano oggi ben noto nel mondo scientifico. Si cominciava ad esagerare. O, almeno così penso la Polizia del neonato Regno Lombardo-Veneto. E, siccome agli austriaci le esagerazioni non andavano a genio, venne nominata una commissione, “principalmente composta de’ professori chiarissimi dell’Università di Padova”, per dirimere la questione. 

Come accade ancora oggi, gli illustri esperti di nomina governativa ispezionarono, si consultarono e relazionarono, senza capirci un accidente.

Viceversa, un ventottenne studente di farmacia in quarantott’ore risolse il dilemma.

Bartolomeo Bizio, che veniva dalla campagna vicentina, con la polenta aveva una certa dimestichezza. Per cui, invece di consultare libri ed esperti, fece l’unica cosa che fa in questi casi uno scienziato vero. Esperimenti.

Preparò la sua polenta e la espose all'aria calda e umida, fino a farla contaminare dalle macchie rosse. Poi, provò che la contaminazione si poteva propagare, sia per contatto che a distanza, ad altri pezzi di polenta. Infine, riuscì a inattivare la propagazione con i vapori di zolfo e le alte temperature. Ne concluse che il fenomeno della “polenta porporina” era dovuto a quello che oggi chiamiamo un batterio. Lui la chiamava pianticella, e la battezzò Serratia Marcescens, per vendicare l’onore di un monaco toscano.  Nello specifico, di Serafino Serrati, che inventò il battello a vapore prima di Fulton ma, siccome non era americano, cadde nell'oblio.

Bizio divulgò la scoperta il 22 di agosto. Due giorni dopo la notizia già stava sulla Gazzetta. In seguito, si trovò a polemizzare con l’abate Melo. Quest’ultimo sosteneva che il fenomeno della polenta sanguinante era dovuto alla permanenza all’aria per tempi di due o tre giorni. Ma gli esperimenti del giovane di Costozza di Longare mostravano tutt’altro. La Serratia si sviluppava nelle prime 24 ore. Poi subentravano le muffe, che la distruggevano: “anzi oltre un tale periodo s' alzano con rigoglio le altre muffe, le quali impediscono efficacemente l'accennata colorazione. In questa circostanza si osserva in piccolo quello, che in grande suole addivenire, cioè che le piante di maggior levatura abbattono così le piccine, che fatte tisicuzze pel danno che ricevono, terminano alla per fine col perire intieramente.” 
Qualcuno noterà in queste parole antiche un’osservazione profetica…

Di fatto, Bartolomeo Bizio non aveva soltanto scoperto la Serratia Marcescens.  Con i suoi esperimenti tra i fornelli, aveva introdotto la tecnica di coltivazione e riproduzione dei batteri su substrato solido.

Passarono otto lustri. Arrivò Pasteur e nacque la microbiologia moderna. Pasteur confutò la teoria della generazione spontanea facendo bollire un brodo di carne. E nei bordi continuò a coltivare i suoi microorganismi.  I substrati liquidi però avevano un problema: nei bordi tutto si mescola ed è impossibile separare i diversi ceppi batterici. Cosa che invece si poteva fare sulla polenta, dove le varie macchie porporine crescevano separate. La soluzione era proprio il substrato solido. Nel 1872 Joseph Schröter riesce ad isolare diversi batteri cromogeni utilizzando substrati gastronomici: patate, albume d’uovo, cotto, gel di amidi, carne. Il metodo, però, era di applicazione limitata. Quando i batteri non erano del tipo che genera pigmenti, accadeva spesso che il loro colore si confondesse con quello del substrato. Che, d’altra parte, non poteva essere cambiato a piacimento: ogni batterio ha le sue preferenze alimentari…

Nove anni dopo, Robert Koch trovò la chiave del dilemma: il substrato doveva essere solido, trasparente e sterile. E in grado di incorporare il brodo nutriente adeguato. C’era un ovvio candidato ideale a questo ruolo: la gelatina animale, meglio conosciuta come colla di pesce, che il micologo lombardo Carlo Vittadini aveva iniziato ad usare trent'anni prima.

Koch iniziò a rivestire di gelatina il fondo delle basse capsule cilindriche di vetro, che il suo assistente Julius Richard Petri aveva inventato per lui. La ricerca subì una rapida accelerazione. Ma, come sempre, i problemi non erano finiti.

La gelatina aveva due grossi difetti. Tanto per iniziare, essendo un gel di proteine, poteva essere distrutta dai microorganismi proteolitici.  E poi, soprattutto, tornava inesorabilmente allo stato liquido quando la si scaldava fino a 37°C. Un bel problema, quando si deve simulare lo sviluppo batterico nelle condizioni termiche del corpo umano…

Probabilmente Koch non aveva la stessa dimestichezza con la cucina dei suoi predecessori. Ma aveva tanti collaboratori ed allievi, più o meno illustri.

Walther Hesse all’epoca faceva il medico condotto a Schwarzenberg, in Sassonia. Nell’inverno 1881-1882 trascorse un periodo di studio presso il laboratorio di Robert Koch a Berlino, spinto dall’interesse ad indagare la presenza nell’aria. Negli anni precedenti, il suo iter scientifico l’aveva portato a girare l’Europa ed il mondo. Nel 1872, mentre era medico di bordo sulle navi per New York, studiò per primo il mal di mare. E, durante il soggiorno nell’attuale Grande Mela, gli presentarono una famiglia di emigranti olandesi di nome Eilshemius. Tra lui e la figlia maggiore, Fanny Angelina, dovette scoccare una scintilla. Perché, qualche mese dopo, durante un viaggio in Svizzera degli Eilshemius, Fanny Angelina, accompagnata dalla sorella si allunga fino a Dresda per rivedere Walther. L’estate dopo si fidanzano e si sposano a Ginevra nel 1874.

Lina, come la chiamava Walther, era un’ottima cuoca e disegnatrice. Divenne a tutti gli effetti la sua assistente nel laboratorio casalingo che aveva messo in piedi a Schwarzenberg. E lo aiutava nei suoi esperimenti con tubi di vetro rivestiti all’interno di gelatina, per catturare i batteri dell’aria. Le gelatina era un vero guaio anche per Hesse. Sul più bello, gli si scioglieva, rendendo vana ogni fatica.

Stranamente, non si scioglievano mai le meravigliose gelatine di frutta e verdura che Frau Lina preparava in cucina, con la ricetta di mamma. Ricetta che, a quest’ultima era stata insegnata da un vicino di casa olandese, che aveva vissuto per un certo periodo a Giava. A Giava, come in molti paesi limitrofi, fa molto caldo, e la colla di pesce sarebbe del tutto inutile per produrre cibi solidi. Fortunatamente, laggiù abbondano diverse specie di utilissime alghe rosse, da cui si estrae un gelificante, che chiamiamo agar-agar, perfetto per la cucina dei climi tropicali. Le gelatine che produce resistono solide fino a circa 90°C. L’agar-agar era diffusissimo nelle cucine dell’estremo oriente e sui mercati internazionali. Per cui Lina non aveva difficoltà a procurarselo e ad utilizzarlo per le sue ricette casalinghe. Le venne del tutto naturale suggerire al marito di usarlo per rivestire i tubi al posto della malefica colla di pesce.

 Walther l’ascoltò ed ebbe finalmente successo.

E fu la rivoluzione. 

Il dottor Hesse comunicò la notizia a Koch, che immediatamente ne fece tesoro. Grazie alle capsule di Petri, rivestite di agar-agar, isolò il bacillo della tubercolosi.

Dalla polenta di Bizio alle gelatine di Frau Hesse erano passati poco più di sessant’anni.

Per dare un’ultima soddisfazione a Bartolomeo e Lina, facciamo un altro passo in avanti di quarant’anni. Siamo a Londra, in un laboratorio del Saint Mary Hospital. Le capsule di Petri rivestite di agar-agar sono ormai uno standard. Oltre a coltivare i batteri, ora si cerca di farli fuori, senza nuocere al corpo umano che li ospita. A un ricercatore scozzese un po’ originale, o distratto, gocciola il naso su una di queste capsule. Miracolo: dove è caduto il muco, i batteri non si sviluppano. Il ricercatore scopre il lisozima e le sue proprietà antibatteriche. E’ un successo parziale, perché i batteri più cattivi del lisozima se ne fanno un baffo. Così il nostro va avanti. Nell’estate del 1928 evidentemente ha bisogno di riposo e se ne va in vacanza in campagna. Doveva avere molta fretta di partire, perché, invece di ripulire per bene il bancone dagli esperimenti finiti, sbatte in un angolo, accatastate, tutte le capsule di Petri piene di agar-agar e di batteri. Quando torna, a settembre, ovviamente trova quasi tutto ammuffito. Getta le capsule in un vassoio riempito di Lysol per disinfettarle, ma sono talmente tante che non riesce a sommergerle tutte. Arriva a trovarlo un suo ex assistente e, per fargli vedere con quanta mole di lavoro l’aveva lasciato, gli mostra il cumulo di capsule sul vassoio. Va da sé che sulla cima del mucchio la muffa non se n’era andata. Anzi, si era sviluppata tanto da far fuori una colonia di Staphylococcus aureus. Che curiosa coincidenza con le muffe sulla polenta di Bizio…

Se il nostro distratto ricercatore fosse vissuto a Napoli, l’avrebbero soprannominato Alex ‘o zuzzus. Ma gli anglosassoni non si lasciano andare a queste simpatiche iniziative, per cui lo chiamavano semplicemente Alexander Fleming. Quel giorno, Sir Alexander scoprì la penicillina.

Non possiamo nemmeno contare il numero di vite salvate grazie a questa affascinante successione di eventi. 

Che sarebbe accaduto, se  Frau Lina avesse detestato cucinare?


Rendiamo omaggio a questa fantastica donna di casa e di cucina. 
Che ha tutti gli indici bibliometrici rigorosamente nulli. 
Ma ha giovato, alla scienza e all'umanità, molto più di migliaia di accademici titolati.



Lina e Walther

Bartolomeo







venerdì 28 giugno 2013

ISI 30

Molti dei miei pochi lettori, ieri sera, mi tenevano compagnia nelle sale affascinanti di  Palazzo Ceriana Mayneri.  

Tutti a festeggiare il trentesimo anniversario della Fondazione ISI

ISI significa Institute for Scientific Interchange. Ma, per me ed una schiera di vecchi amici, che navigano in un intorno indefinito della cinquantina, ISI vuol dire un mare di ricordi. E' stato un tuffo nel passato, ingenuo ed entusiasta, del nostro apprendistato scientifico. Gli anni del dottorato, le settimane d'autunno alla scuola di Torino, le fughe domenicali ad Alba per la fiera del tartufo. Rivedo tante persone care. Tutto è cambiato e tutto è come prima. 

Mario, il grande capitano, è sempre in vetta: gracile e perennemente sorridente. Non c'è dubbio: l'entusiasmo e la passione lo preservano dal tempo. Alessandro, con i capelli corti e grigi, parla sul palco di argomenti seri ed importanti. Ma, se socchiudo gli occhi, rivedo il ragazzo, paffutello e boccoluto, che si cimenta nelle sfide di sumo sui prati freschi di rugiada, nelle notti di San Giovanni.  Guido è magro e non beve più. Vinceva le sfide a chi mangiava più tortelli. E mi sembra ieri. Ma che sorpresa ritrovare Ezio, allegro dietro ai suoi baffetti. Un po' più chiari, ma gli stessi di quando, nei pomeriggi di pioggia a Villa Gualino, mi insegnava a craccare i programmi.

Allora, facevamo, più o meno tutti le stesse cose. Poi, ognuno ha fatto una scelta e ha preso la sua strada. La strada, sono certo, che gli piaceva e lo ha reso felice. Ma oggi siamo di nuovo tutti qui.

Matteo, il designer, ha deciso che il tema della serata sono gli anni '30. E noi dobbiamo preparare un cocktail adeguato all'anniversario. Roberta, Raffaella e Yansong, superano se stessi in un drink non-newtoniano con i colori di ISI. Bisogna preparare anche una presentazione, per spiegarlo agli ospiti.

Voi che mi conoscete, sapete il sentimento di profonda depressione che mi infondono i powerpoint. Magari pieni di formule e scritti con dieci caratteri diversi e fantasiosi. Depressione che aumenta all'aumentare delle animazioni, con  scritte che rimbalzano e frullano in aria. E si trasforma in pura isteria, quando vedo la tragicomica diapositiva finale che recita: "Grazie per l'attenzione". 

Ma chi l'ha detto che per comunicare bisogna seguire  schemi che detestiamo?

Prendo una macchina fotografica, un programmino e un po' di fantasia ed esce un video che sembra un film muto. Dice tutto in tre minuti: la durata di un brano delizioso di Gershwin.

Buon compleanno, ISI!




giovedì 25 aprile 2013

Centomani


Finalmente una bella giornata d'aprile. Decisamente primavera. Guido sotto il sole del mattino, lungo le stradelle nascoste della Bassa che, un tempo, divoravo in bicicletta per arrivare al Fiume. Non che ora mi manchino le forze; ma è morta la poesia. La tangenziale e l'Alta Velocità hanno violentato la campagna ed ucciso il mondo magico della mia infanzia. Meglio passare veloci, senza indugiare troppo sui luoghi e sui ricordi. Giungo alla Corte di buon ora. A darmi il benvenuto ci sono due pavoni che si godono i primi tepori sull'argine maestro. Nel cortile, una schiera di fantastici produttori di Emilia e Romagna (unite dalla politica, ma non dalle tradizioni) propongono assaggi di ogni ben di Dio.

Il piccolo regno bucolico di Massimo Spigaroli è già popolato di vecchi amici. Molti compagni d'avventura degli anni eroici dell'avanguardia. Più ‘ogni altra cosa, è il piacere di rivederli che mi ha trascinato qui. Nell'era dello streaming, ai convegni non si va tanto per ascoltare conferenze: quel che conta davvero è parlarsi a quattrocchi, davanti a cibo e vino, e stringersi la mano.

Il primo che incontro è Giovanni Ballarini, ricco d’anni e di saggezza. Ci sediamo a un tavolino a parlare del mio futuro intervento al convegno dell’Accademia. Il titolo proposto mi ha subito convinto.  “La buona scienza”, lo stesso titolo che, anni fa, scelse Olivia Chierighini per uno dei primi articoli che divulgavano al grande pubblico la cucina scientifica. Era stata a Parigi, dove aveva visto esperimenti interessanti, ma al limite del commestibile. A Parma le preparammo un gelato da leccarsi i baffi. La scienza era buona davvero, allora…

Giovanni mi racconta dei risultati di una recente indagine dell’Accademia. Pare che gli italiani, a casa, non cucinino quasi più. Per forza, il poco tempo che hanno lo perdono a guardare i cuochi in tv… Eppure, giuro che, solo qualche anno fa, se qualcuno avesse profetizzato la pasta cotta, condita e surgelata nei supermercati, l’avrei preso per pazzo.

Saluto il Presidente e, non lontano, vedo Davide Paolini. Ottima occasione per discutere del libro che abbiamo in mente. Dopo esserci aggiornati, mi fa notare che parteciperemo alla stessa tavola rotonda.

 –Già – gli dico – mi hanno invitato a discutere di un argomento su cui sono sempre stato scettico e critico… L’analisi sensoriale.-  Mi confessa di pensarla come me. Prendiamo un libricino, che viene distribuito in giro. Dovrebbe insegnare a degustare il formaggio, quantificando le sensazioni. Ci facciamo due risate. 

Sarà che, per deformazione professionale, ho sempre dato molta importanza alla misura e alla sua definizione. Del resto, ci insegnavano fin da matricole che, senza l’operazionismo, la relatività speciale non starebbe in piedi. Pensavo allora a Bridgman che si rigira nella tomba, leggendo la “definizione operativa” di friabilità (numero intero compreso tra 1 e 5, estremi inclusi): “mordere il campione da 2 a 4 volte con i molari e valutare l’aumento del numero di frammenti così prodotti  prima che si sciolgano nella saliva”. 

Una volta, discutendo con un esperto, gli feci notare che, per effettuare una misura, è necessario definire un’unità di misura da poter confrontare oggettivamente con il campione.  Quello mi disse che i numeri , che esprimono l’intensità delle sensazioni, si possono interpretare anche semplicemente come un ordinamento, ovvero una sorta di classifica. Quando gli obbiettai che esistono insiemi parzialmente ordinati, in cui non tutti gli elementi sono confrontabili (aggiungendo che quella era la situazione tipica di misure espresse da parametri multidimensionali), quello mi fissò con uno sguardo semicomatoso…

Davide è ancora più sconvolto dalla richiesta che i campioni da assaggiare siano bastoncini di 1.5x2.0x7.0 cm. Il Parmigiano, a noi, piace mangiarlo a scaglie. Al mercato, il formaggiaio taglia scaglie da ogni forma per farmi scegliere. Perché mai devo assaggiarlo a bastoncini, se già so che così non mi piace? Si obbietta che è per standardizzare la degustazione. Conto obbiezione: a che serve standardizzare, se la degustazione a bastoncino, scientificamente  parlando, mi dice poco o nulla su come sarà l’assaggio a scaglie? Tecnicamente, è come supporre che un integrale definito identifichi univocamente una funzione!

Leggiamo di “laboratori di educazione sensoriale”.  Educare i sensi?  Ma i sensi sono libertà e spontaneità! Tutta la cultura occidentale è una contrapposizione tra sensi e ragione.  Volete inquadrare pure quelli? Che tristezza…  Penso al mio amato Apollinaire:

J’écris seulement pour vous exalter
Ô sens ô sens chéris
Ennemis du souvenir
Ennemis du désir
Ennemis du regret
Ennemis des larmes
Ennemis de tout ce que j’aime encore

Si unisce a noi Enrico Chierici, alias Chichibio. Stesso punto di vista. Decidiamo che alla tavola rotonda faremo outing. Recupero il file della mia conferenza di San Sebastian del 2009. Il tecnico è Gilberto,  un vecchio amico d’infanzia. Gli passo la chiavetta e gli chiedo di proiettare due immagini.  Esordisco con quelle. A moderare c’è andrea Petrini, che a San Sebastian era presente… La discussione è entusiasmante.
Dopo, ci si ritrova a commentare, a capannelli, nel cortile. Si unisce Allan Bay. Mi ricorda che dobbiamo andare insieme a parlare con Daniel Facen. Decidiamo di rimandare a dopo l’estate. 

In giro, i miei vecchi studenti di scienze gastronomiche, che ora seguono un master, sono impegnati a fare interviste e riprese.  Mi chiedono una dichiarazione. In due parole: la scienza può aiutare l’arte, ma, senza talento, non serve a niente…

Tra i culatelli di Massimo, le forme di Parmigiano, le piade, le fritturine, i dolci e i caffè, lentamente si fa sera. Prima della cena, mi eclisso per un poco. Il tramonto sull'argine maestro, per chi è nato e vissuto a pochi chilometri dal Fiume, è una sensazione difficile da condividere e raccontare.

Aperitivo nelle cantine, ad assaggiare quattro stagionature di culatello, tra muri e gallerie di migliaia di culatelli. Un duo d’archi suona Verdi.  Apoteosi della Bassa.

A cena sono accanto a Gigi e Clara Padovani. Accenno a Gigi di un progetto che coltivo a Torino. Gli piace: sarà dei nostri. Dall'altro lato, Enrico Derflingher. Non posso fare a meno di chiedergli consigli, visto che sto per partire per Dubai…

Arriva l’antipasto di Massimo Bottura. Think Green. In bocca, mi emoziona. Non mi capita spesso e, quando succede, avverto la necessità fisiologica di dirlo all'autore  Ma Massimo se ne va prima, perché alla Francescana lo aspetta Martin Berasategui. Nei sotterranei della Corte Pallavicina, il cellulare non prende.

Non importa. Gli mando un sms quando esco, a tarda notte. Il giorno dopo Massimo mi chiama. Parliamo brevemente di quel piatto, con un linguaggio che, forse, capiamo solo noi. Ma quello che ho da dire, si riassume così: “Massimo, chapeau!”.

A buon intenditor, poche parole…





domenica 31 marzo 2013

CONTRO LE RICETTE

"Perché la gente compra sempre più libri di cucina ma, nelle case, si mangia sempre peggio?"


1: Divagazioni intorno a una pastiera


E’ Pasqua e, anche se fa freddo e piove, la cucina profuma di primavera, perché in forno stanno cuocendo le pastiere.  E, poiché con la pastiera napoletana ho un rapporto antico e speciale, per questo secondo atto di guerra amichevole contro le ricette, faremo attendere i nostri eroi nel sotterraneo di Parigi, dove li abbiamo lasciati la volta scorsa, e ci spostiamo nella cucina di casa.

La pastiera di Roberta è speciale. E’ arrivata a metterla a punto in anni di piccoli e grandi perfezionamenti. Alla fine Fulvio la proclamò la migliore fra tutte quelle che aveva assaggiato mai. Se le chiedi la ricetta, non ha nessun problema a scriverla. Ma, anche se rispetti dosi e tempi, difficilmente otterrai lo stesso risultato. Fulvio (che di cucina ne capisce…) non le aveva chiesto la ricetta. Le sue domande erano ben diverse: “Che burro usi?” “Dove hai preso il grano e l’acqua di fiori d’arancio?” “E i canditi?”.  Non era un mistero: senza il burro di quel caseificio di montagna, la frolla era terribilmente diversa. Il grano, lo si andava a comprare a Salerno. La frutta candita, intera, a Napoli. Quanto all’acqua di fiori d’arancio, dopo mesi e mesi di ricerche infruttuose, come fornitore unico fu scelto un oscuro negozietto della città vecchia a Grasse. Una volta, per questioni di forza maggiore, fu costretta ad usare i flaconcini del supermercato, ma il risultato fu un dolce dal profumo sintetico, che tutti definimmo “ di plastica”, e finì nella spazzatura.

Questa, ovviamente, è solo la punta dell’iceberg. Perché mentre la pastiera cuoce, Roberta non lascia per un istante la cucina. Occhi puntati sul forno, apre lo sportello, gira le teglie, alza ed abbassa il termostato.

Piuttosto che seguire una procedura, controlla dal vivo il processo. Che è l’unica cosa da farsi, considerata l’estrema variabilità delle geometrie, dell’umidità dell’aria, dei flussi della ventola e delle temperature all’interno della camera di cottura. 

Ne val la pena? – si sente chiedere spesso. Se volete un risultato speciale, la risposta è una sola: “E’ indispensabile!

Viste le premesse, ora potete capire meglio la storia che sto per raccontarvi. 

Qualche anno fa, mi ritrovai nella commissione d’esame finale di una prestigiosa scuola di cucina. I candidati erano pasticceri e dovevano preparare due dolci: uno a loro scelta, l’altro estratto a sorte dalla commissione. La commissione estrasse la pastiera. 

Passai un’ora buona di assaggi raccapriccianti. Gli allievi sfilavano davanti ai commissari uno ad uno. Al primo feci notare che non si sentiva il profumo di fiori d’arancio. Quello rispose che aveva messo la dose esatta della ricetta. Al che sbottai: “Ma secondo te, per quale motivo si mette l’acqua di fiori d’arancio nella pastiera?? La pastiera è il dolce di Pasqua, deve profumare di primavera. Le varie acque di fiori d’arancio hanno intensità diverse: se il profumo non si sente, ne devi mettere di più, non ti pare?”. Un altro portò una torta cotta fuori e cruda dentro. “Ho rispettato i tempi e le temperature della ricetta”. “Ah sì? – gli dico – “Perché, la ricetta ti dava anche materiale forma e spessore della teglia? Ti diceva la posizione della ventola? Non vedi che la teglia che hai usato non è da pastiera? Dovevi tenere il forno più basso e comunque, se vedi che l’esterno è cotto e l’interno non lo è, basta portare il termostato poco sotto i 140 gradi per completare la cottura interna bloccando le reazioni di Maillard in superficie”. 

Ma le teglie, quel giorno, erano tutte sbagliate.

Uno studente portò una pastiera che, per colpa di una teglia troppo alta, era tutto ripieno e niente pasta. Un altro, che ebbe l’accortezza di riempirla a metà, arrivò con una torta bruciata su un lato.  Improvvisai una minilezione sull’importanza della forma dei contenitori per cottura.  “Vi siete mai chiesti perché ci sono teglie alte e teglie basse? Se l’altezza delle pareti non fosse importante, le faremmo tutte alte per risparmiare, non vi pare? Non lo vedete che se la teglia non è piena fino la parete eccedente scherma l’aria della ventola e la riflette? Così vi trovate una parte cruda ed una bruciata… “. I forni ventilati sono tremendi, perché il flusso dell’aria è disomogeneo. Per questo Roberta ruota la teglia durante la cottura, quando non ne ha a disposizione uno a piatto rotante. “ Non avete mai visto i ‘ruoti’ da pastiera in alluminio, che si vendono in Campania? Studiatevi la loro geometria, perché è il frutto dell’esperienza di secoli. Se sono fatti a tronco di cono, una ragione ci sarà…”.

La ragione, ovviamente c’è. Più d’una, in realtà. La pastiera è un dolce difficile. Una pasta secca che deve contenere un ripieno molto umido. In queste condizioni, la cottura non è banale: bisogna far evaporare una parte dell’acqua del ripieno, senza impedire l’essiccazione della frolla. La geometria tronco-conica permette una maggiore superficie di contatto tra il ripieno e l’aria e consente di utilizzare una maggior quantità di pasta sui bordi.

Alla fine, i mei voti raggiunsero un picco di 6/10. Il resto , insufficienze.

Non fui mai più convocato in commissione. 

Non me ne duole. Gli allievi continueranno a seguire le loro ricette e mai nessuno riuscirà a fare una pastiera come quella che fra poco assaggerò… 

Per cucinare bene, non esistono riti e formule magiche. Servono anni di studio e lavoro.

Buona Pasqua!








lunedì 25 febbraio 2013

La neve nel bicchiere


Le casette stupefatte sono bianche come il latte.
Tutto è bianco monte e valle…
è un diluvio di farfalle.
Lungo i tetti,
sopra i rami
che merletti, che ricami!
Che stupore per gli uccelli!
Che cappucci per gli ombrelli!


In Emilia nevica da tre giorni. 
Torno da Roma e trovo tutto bianco. Bianco e silenzioso. 
D’improvviso, mi sembra di aver viaggiato a ritroso negli anni. Mi risuonano nella mente le filastrocche che Mina, la maestra, ci insegnava a scuola. Rivedo i nonni, che escono e rientrano con i bicchieri straripanti di soffici nuvole bianche: due dita di Fortanella ed è pronta la delizia estemporanea che, per un istante, fa sentire il povero un re.

La Fortanella non è un vino. Qui la chiamano vino perché si fa con l’uva, è rossa, frizzante ed ha quei pochi grammi d’alcol che bastano per tirarti un po’ su. Ma cinque gradi non sono nulla per un bevitore serio e i produttori fedeli alla tradizione scrivono in etichetta “mosto d’uva parzialmente fermentato”. Una volta, ovviamente, nei negozi non la trovavi. Dovevi conoscere un contadino della Bassa. E sperare che l’annata fosse quella buona, perché un vinello così leggero è ipersensibile alle bizze del tempo. Ma, quando tutto andava per il meglio, ti trovavi nel bicchiere quel gioiellino di bibita padana, dolce e acida quanto basta per rinfrescarti le estati e pulirti il palato dal passaggio dei nostri salumi ricchi e delicati, che un vino vero ucciderebbe senza pietà. Sconosciuta a chi non ha vissuto le nebbie dense e i pomeriggi d’afa equatoriale delle terre golenali, la Fortanella nasce da una vite antica, che si è fatta un baffo della filossera, perché cresce nella sabbia. Per cui, ancora oggi la coltiviamo sul suo “piede franco”, il ceppo radicale originario, senza doverla innestare sui ceppi barbari d’oltreoceano. Forse è per questo che le siamo rimasti così affezionati…

La stessa vite la coltivano nel ferrarese, dove si produce la più celebre Fortana del Bosco Eliceo che, con i suoi 12 e passa gradi alcolici, è tutt’un’altra storia.
Quella, la trovi sui libri seri e i trattati. Della Fortanella scrive, di sfuggita, solo Giovannino Guareschi (che la coltivava nella campagna di San Secondo). Lo fa in un racconto, uscito su un numero di Candido del ’56 e ripubblicato postumo in Ciao, don Camillo:

Gli uomini di poche parole si comportano, spesso, come le bottiglie di Fortanella. Se le lasciate tranquille nel loro angoletto, con il sedere nella sabbia fresca, si presentano per quello che sono: umili bottiglie di un umilissimo vinello a bassissima gradazione. Cavatele fuori dall’ombra e, appena avrete cominciato ad avvitare il cavatappi nel sughero, vi troverete coinvolti in una specie di eruzione vulcanica.

La neve placa l’eruzione. La dolcezza si assopisce. L’alcol carezza appena la bocca, lenisce il freddo. Per un lungo attimo, estate e inverno si fondono nei sensi. Assaggi un pezzo di cielo e ti sembra d sognare.

Granita dei poveri, gelato dei poveri…
Niente di tutto questo. La neve nel bicchiere non ammette paragoni. Gli Arabi crearono gli antenati dei sorbetti, unendo i succhi d’agrumi a quella dell’Etna. Nel ferrarese (ancora quello…), si usava la Saba, cioè il mosto cotto, come nel film di Florestano Vancini. Oggi, si fanno le granite con le macchine elettriche, si polverizza il ghiaccio con il pacojet, si coprono le piste con la neve artificiale... 
Ma la neve prodotta da madre natura resta insuperata.

Non per sentimentalismo: è una pura questione di fisica e geometria.

Partiamo da una constatazione semplice, ma alla portata di tutti: la neve è leggera. Molto più leggera dell’acqua e del ghiaccio. Una brocca da un litro, riempita di neve appena caduta, pesa tra 200 e 400 grammi. La densità, ovviamente, non è sempre la stessa. Dipende dal tipo di neve. In Il senso di Smilla per la neve, si racconta che gli Inuit, che con questo materiale hanno una certa dimestichezza, utilizzano decine di parole diverse per descriverne i diversi stati. Anche sciatori ed alpinisti, nel loro piccolo, amano distinguere la neve farinosa da quella compatta, pesante, bagnata o marcia. In ogni caso, la neve è sempre meno densa del ghiaccio. Il motivo è semplice: contiene tantissima aria. In generale, un materiale granulare occupa più spazio di un materiale compatto, a causa degli interstizi presenti tra i grani. Questo succede alla neve, tra fiocco e fiocco, ma anche alla granita. La forza della neve è un'altra: anche il singolo fiocco è un vero colabrodo!

Alla fine dell’Ottocento, con la nascita della fotografia microscopica, l’umanità venne a conoscenza della forma dettagliata dei fiocchi di neve.  Wilson Bentley, irrefrenabile fotografo del Vermont, soprannominato Snowfalke Bentley, arrivò ad immortalarne più di 5000. Erano tutti diversi fra di loro, ma avevano in comune la caratteristica forma ramificata, a simmetria esagonale, che, da allora in poi, è diventata il simbolo per eccellenza della neve, del freddo e dell’inverno (la troviamo perfino sul pulsante dell’aria condizionata…).

Oggi, le foto le facciamo con il microscopio elettronico, ma la sostanza rimane quella: la neve nasce piena di spazi vuoti, che vengono riempiti dall'aria  Questo la rende soffice, la fa danzare lentamente mentre cade, la promuove a fantastico isolante naturale, in grado di proteggere dal freddo eccessivo i campi, i boschi e i fiori del mio balcone. E dona, alla miscela di neve e vino, quella favolosa leggerezza che nessuna tecnica umana ha saputo eguagliare.

E’ tutto merito dei processi fisici che avvengono nell'alta atmosfera. Le minuscole goccioline d’acqua, del diametro di circa 10 micron, si trovano in stato sottoraffreddato, a parecchi gradi sottozero (fino a -40°!), e fluttuano nell'aria formando un aerosol. Basta un granello di pulviscolo, un microcristallo di ghiaccio, una perturbazione piccolissima, per innescare la solidificazione. Alla prima goccia ghiacciata, si attaccano le altre, ghiacciando a loro volta e dando inizio alle sei diramazioni simmetriche attorno al centro.

Il processo prosegue: altre goccioline diffondono e si attaccano. Per ovvi motivi, è più probabile che restino attaccate alla punta di un ramo che non a un’insenatura. Così si produce la caratteristica forma dendritica, ogni volta diversa, perché diverse sono le condizioni di temperatura, umidità e corrente.

Quando il fiocco è abbastanza pesante, inizia a cadere. Si posa a terra. Viene circondato dagli altri. Si forma la morbida coltre bianca. Che, però, è instabile quanto i fiocchi che l’hanno creata. Col passare del tempo, le punte dei cristalli si sciolgono e l’acqua va a riempire i buchi, righiacciando. Se non è sciolta, dopo qualche giorno la neve è più dura, almeno in superficie. Lo strato profondo, più isolato, resta soffice molto più a lungo.

Tutto questo, l’uomo non riesce a riprodurlo. La neve artificiale è fatta da palline, non da fiocchi. Ho perso il gusto dello sci, da quando i barbari moderni hanno iniziato a coprire i prati di pesantissimi tappeti bianchi, sparati di notte dai cannoni. Lì, la poca aria può stare solo negli interstizi fra le palline. Addio morbidezza…


Una bottiglia d’Aglianico aperta, sul tavolo, mi riporta al presente e mi suggerisce un esperimento. Apro la finestra e prendo un po’ di neve da vaso di rose. La copro di vino. Quando la neve è tutta sciolta, il livello del liquido è sceso e la superficie è cosparsa di bolle, impronta inconfondibile dell’aria liberata dai fiocchi. Assaggio: è proprio aria; se fosse anidride carbonica, sarebbe frizzante.

L’assaggio, poco edificante per il palato, mi fa desiderare intensamente di tornare alle origini. Voglio ricreare la mia madeleine invernale. Scendo in cantina e prendo una delle bottiglie che fa il mio amico Jimmy (non è americano: solo che Gianmaria è troppo lungo…). L’etichetta parla da sola: Nebbia e sabbia.

Risalgo. Esco sul balcone e scavo sotto la coltre più alta. Il bicchiere è pieno. Verso. Mescolo un po’ e, col cucchiaino, inizio a grattare.

Il tempo si è fermato. 
Fuori, la neve danza davanti al lampione appena acceso. 
Nel silenzio, la voce della maestra mi racconta, cantilenando, un’altra storia antica.

Neve bella, fatta a stella,
bianca neve, lieve lieve
vieni in mano,
piano piano:
sei per poco dolce gioco,
dolce gioco in mille fiocchi
che mi frullan
sotto gli occhi.





















Snowflake Bentley...

... e le sue foto













Fiocchi al microscopio elettronico



Un fiocco "invecchiato" che si sta compattando


Neve artificiale



















Bolle d'aria nel vino fermo, dopo lo scioglimento della neve







domenica 3 febbraio 2013

CONTRO LE RICETTE

"Perché la gente compra sempre più libri di cucina ma, nelle case, si mangia sempre peggio?"


Prologo: La granita di Jeffrey


Una fresca sera di fine aprile del 1995, per le stradine semibuie di Erice camminano in fila indiana, a passo spedito, quattro uomini dal fare sospetto. Dopo un rapido sguardo di ispezione,  si infilano di soppiatto, da una porta laterale, in un locale con la saracinesca abbassata.

Appesa fuori, un'innocua insegna in legno recita: "Pasticceria Maria - Mustaccioli - Amaretti - Quaresimali - Bocconcini - Dolci in conserva - Frutta martorana".

Jeffrey, Pierre, Davide e Giuseppe si erano allontanati poco prima da San Rocco alla spicciolata, giusto per non incuriosire i colleghi, che si attardavano a bere marsala straossidato. Jeffrey aveva organizzato tutto, ma c'era posto per pochi, e quei pochi li aveva scelti accuratamente: un pasticcere francese e due scienziati italiani. Anzi, un padano e un siculo. Compagine ottimizzata per eviscerare nei minimi dettagli, anche linguistici, i segreti che stavano per essergli rivelati.

La donna, che stava ad aspettarli, fa scendere il quartetto nei sotterranei. Estrae una brocca e inizia a spiegare: - Questo è il succo di limone.-

La signora Maria, a dire il vero, appariva alquanto perplessa. Possibile che, con tutto quel ben di Dio che sapeva preparare con maestria, all'americano interessasse proprio una banalissima granita?

Il motivo in realtà c'era. Giusto un anno prima, negli Stati Uniti era uscito ed aveva raggiunto un rapido successo un libro, Bitter Almonds, che raccontava la storia della signora Maria, insieme alle sue ricette più rappresentative. Maria Grammatico aveva passato l'infanzia nell'orfanotrofio di San Carlo, dove aveva imparato dalle suore del convento l'antica arte della pasticceria siciliana. Una storia non inconsueta, nell'Italia del dopoguerra, ma sufficiente per far andare in brodo di giuggiole i lettori d'oltreoceano.

Le ricette in tutto sono quarantasei: cominciano con Pasta di Mandorla (Almond Paste or Marzipan) e finiscono con Polpette Dolci (Sweet Meatballs), passando per significative leccornie, come Genovesi, Reginette e Mostaccioli di Vino Cotto. 

Manca però lei. L'unica, inimitabile, irrinunciabile Granita Siciliana.

La signora Maria cerca di comunicare agli astanti quei due o tre concetti chiave che ha imparato nel corso degli anni. In primis, che la qualità della granita dipende fondamentalmente dalla qualità dei limoni. E poi, che in fondo si tratta solo di succo di limone, acqua e zucchero, raffreddati mescolando, in modo da ottenere una granulosità finissima, che rende la granita quasi cremosa, mantenendo comunque percettibili i grani di ghiaccio.

L'occhio disincantato dello scienziato può dirvi che la granita è una sospensione, in cui la finezza dei granuli aumenta la quantità di liquido legato. Può addirittura citarvi una legge di proporzionalità inversa al quadrato della taglia dei grani. Può farvi notare la differenza sostanziale tra la granita, ottenuta per congelamento dello sciroppo, dalla grattachecca, che si ottiene aggiungendo lo sciroppo al ghiaccio tritato. Ma, in fin dei conti, la quintessenza della granita è tutta qui: limoni buoni e cristalli fini.

Tutto questo, naturalmente, non basta al precisissimo Jeffrey che subito chiede: - Quanta acqua?

La signora fa capire che è più che altro una questione di gusto, ma arriva a proporre due parti d'acqua per una parte di succo. Poi si aggiunge lo zucchero e si fa sciogliere completamente.

- Quanto zucchero? - incalza Jeffrey. E qui la signora Maria rifiuta di sbilanciarsi. Non è solo questione di gusto. Dipende anche dai limoni: se sono più dolci si mette meno zucchero, se sono più acidi se ne aggiunge un po' di più.

E così inizia la tenzone, perché un americano, senza numeri, si sente perso. Loro, ai vini, danno i voti da 1 a 100 e mettono pure la virgola. Disdegnano il calcio, che dà risultati espressi da piccoli numeri interi (ohibò!) e che può addirittura finire zero a zero (meaningless!). Ma impazziscono per tutti quegli sport su cui si può far statistica. Jeffrey non sarebbe uscito di lì senza la dose di zucchero in grammi, che avrebbe poi pazientemente convertito in once.

La signora Maria è provata. Guarda con occhio supplichevole i suoi connazionali e dice con un filo di voce: - Glielo volete spiegare a questo signore che invece del peso esatto dello zucchero è più importante che si ricordi di mescolare ogni tanto, mentre si raffredda, e di staccare il ghiaccio dai bordi?

"Ogni tanto", ovviamente, è un termine che non rientra nel gergo di Jeffrey, che sorvola sul problema. Ma, alla fine, la spunta. Lo zucchero viene pesato e i numeri immortalati sul taccuino. Jeffrey è felice.
Fermiamo per un attimo la pellicola e abbandoniamo i nostri eroi.

La storia che vi ho voluto raccontare è perfetta per iniziare un lungo discorso, che volevo fare da tempo. Una serie di riflessioni che si sono accavallate e strutturate negli anni, finché un amico, una persona colta e stimata, non le ha risollevate con prepotenza con una domanda apparentemente ingenua: "Perché la gente compra sempre più libri di cucina ma, nelle case, si mangia sempre peggio?".

La risposta non è semplice. Cercherò di fornirvela in modo articolato in una serie di puntate successive. Diciamo, attraverso diversi livelli di approfondimento. E, per cominciare, voglio analizzare con voi quest'episodio di quasi vent'anni fa.

Vi facccio notare, prima di tutto, che ci troviamo di fronte a persone che sono tutt'altro che sprovvedute, in campo gastronomico. Hanno semplicemente esperienze e linguaggi diversi. Ognuno cerca di dare del suo meglio, non di nascondere segreti o di mettere in difficoltà l'interlocutore.

La signora Maria fa la granita da anni. L'ha provata in centinaia di situazioni diverse. Ha sperimentato varianti, ingredienti e clienti d'ogni tipo. Non può raccontare tutto questo in una sera. Probabilmente non ricorda nemmeno tutto. Ma, quest'esperienza ha dato forma ad una conoscenza profonda, che lei cerca di comunicare in poche parole. Lei vuole far capire a Jeffrey che cos'è la granita, prima ancora di come si fa a farla.

Jeffrey è un esperto di gastronomia internazionale. Ha girato il mondo e mangiato di tutto. Ha bisogno di prender nota di quel che assaggia e di come lo si prepara. E lo fa col linguaggio che gli è più congeniale, ovvero con poche parole schematiche e un po' di numeri.

Nessuno dei due sbaglia. O forse sbagliano entrambi, perché, quando la comunicazione non funziona, è difficile distribuire con certezza colpe e responsabilità.

La domanda di Jeffrey sullo zucchero non è stupida o oziosa. Jeffrey, supportato da Pierre, conosce bene il cosiddetto "potere anticongelante" dello zucchero. Sa, in altri termini, che aggiungendo zucchero si favorisce la formazione di cristalli più piccoli. Gli scienziati presenti non possono che confermare, aggiungendo dettagli: lo zucchero aumenta la temperatura di transizione vetrosa dello sciroppo, diminuendo la taglia media dei cristalli. Possono aggiungere che, a parità di zucchero, altri due fattori sono essenziali per determinare quella taglia: la velocità di raffreddamento e quella di rimescolamento. Effettivamente, se usiamo l'azoto liquido, mescolare è quasi superfluo...

Ci sono altri metodi meno "puliti" per ottenere una granulometria fine. Si tratta, però di aggiungere "corpi estranei": dal semplice amido di frumento (o di mais, riso, patate...) fino a raffinatissime porcherie utilizzate dall'industria. Ma, un palato educato, questi ingredienti "neutri"  li sente, e non li apprezza. Il fascino della granita siciliana sta nella sua purezza: una volta sciolta in bocca, non restano che acqua, zucchero e succo di limone...

La signora Maria, con gli anni, ha scoperto che per ottenere il risultato senza barare basta rimescolare al momento giusto. Ma questo momento giusto non è quantificabile con un banale numeretto. Il suo è un invito ad osservare e ad agire quando necessario.

Questo è uno spunto di riflessione, che ci servirà come guida nella prossime puntate.

Ora riprendiamo la storia.

Il quartetto rientra felice a San Rocco. Felice non solo per la lezione di pasticceria, ma anche per la degustazione che ne è seguita.

Dopo qualche giorno, ognuno rientra al suo paese.

Dopo qualche mese, Davide passa nel laboratorio di Pierre a Parigi e, parlando del più e del meno, si menziona la storia della granita.

- Ho sentito Jeffrey - dice Pierre - C'è qualche problema. Invece di una granita gli è venuto fuori un gigantesco blocco di ghiaccio...-


Arrivederci alla prossima puntata.