giovedì 17 gennaio 2013

Leidenfrost!!!


Uso l’azoto liquido da trent'anni. E, da venti, insegno ad usarlo a cuochi, pasticceri e gelatai. L’abitudine e la quotidianità mi hanno dato una certa dimestichezza con quel fluido magico. Perciò, non c’è dimostrazione pubblica, o lezione pratica, in cui rinunci ad immergere un dito nel bicchierino di plastica avvolto da bianchi vapori, estraendolo, dopo un istante, perfettamente asciutto e tiepido.

Non si tratta di una mia bizzarra invenzione. Mi ha insegnato a farlo Antonio, allora mio docente ed ora stimato collega, nel corso di laboratorio del prim’anno. E, da buon insegnante, mi ha anche spiegato perché potevo farlo senza alcun rischio.

Eppure, per vent'anni, mi sono imbattuto in una nutrita schiera di professionisti, esperti, saggi, dotti, medici e sapienti che si scandalizzano, si spaventano e si stracciano le vesti di fronte a quest’innocua performance. Qualcuno è arrivato a sostenere che quello non era vero azoto liquido, perché se lo fosse stato, mi si sarebbe staccato il dito all'istante...

Avevo un bel darmi da fare, a spiegare che è tutto vero, e che quel giochetto sarebbe improponibile con l’olio e l’acqua bollente, che pure si usano ogni giorno in cucina, senza scafandro, guanti isolanti e occhiali protettivi. E quando, pazientemente, raccontavo che il calore del corpo fa evaporare l’azoto, formando uno strato gassoso isolante attorno al dito, le mie parole entravano da un orecchio e uscivano dall'altro.

Ma perché – mi chiedevo – anche l’ultimo dei fifoni accetta di farsi chiudere in una gabbia metallica sottoposta a una scarica elettrica micidiale, mentre presumibili esperti allontanano con terrore il ditino dal bicchiere?

Se chiedi a loro, ti rispondono con sussiego: - Ah, ma quella è la gabbia di Faraday! – . Già, la gabbia di Faraday che studiavamo nei corsi di elettrostatica. Probabilmente, non molto di loro sanno o si ricordano, come si ricava il principio della gabbia di Faraday dall'equazione di Laplace. Però, hanno una bella frase da pronunciare. Un nome che riempie la bocca e spiazza il volgo bruto. Non c’è niente di più efficace, per far colpo, di utilizzare termini esotici o sconosciuti all'interlocutore. Lo metti in posizione d’inferiorità. Lo fai sentire colpevole e ignorante. Difficilmente ammetterà di non sapere, ma annuirà convinto e si berrà tutte le panzane che vorrai propinargli dopo.

E’ il potere magico delle parole…

Se dite a qualcuno che aggiungete zucchero al mosto, per aumentare la gradazione alcolica del vino, tipicamente vi prende per un truffatore o un ciarlatano. Provate a dirgli che quel vino è stato ottenuto attraverso un processo di chaptalisation e strabuzzerà gli occhi, affascinato dalla vostra cultura e dalla nobiltà del linguaggio. E’ esattamente la stessa cosa, ma poter citare l’inventore Jean-Antoine Claude, comte Chaptal de Chanteloup, illustre chimico francese, creatore del termine nitrogène per definire l’azoto, fa tutt'un altro effetto.

Poco importa se quella parola non è proprio la più corretta… A volte, prima che qualche temerario si introduca nella gabbia metallica, mi diverto a chiedergli: - Ma lo sai che la gabbia di Faraday vale solo per i campi statici? Qui c’è una bella scarica che ti aspetta, altro che campo statico! Ti fidi lo stesso in mezzo a quel popò di corrente? -. Se il malcapitato impallidisce, lo rincuoro: - Funziona comunque, stai tranquillo. Ma è un effetto totalmente diverso, che coinvolge il campo magnetico. Si chiama effetto pelle. Anzi, skin effect. In inglese suona sempre più professionale.

I fisici teorici della mia generazione si ricordano ancora di un professore, noto per le sue teorie eterodosse. Erano spesso infondate, ma le sapeva raccontare molto bene, e affascinava. Teneva, per gli umanisti, conferenze infarcite di termini scientifici. Agli scienziati rifilava citazioni in greco antico. E se la cavava sempre.

D’altra parte, proprio in quegli anni, negli Oscar Mondadori era uscita una divertentissima collana intitolata “I bluff”, tradotta dall'analoga inglese “Bluff your way in…”. Erano libricini che in poche pagine ti insegnavano a fingerti esperto di un argomento, spiegandoti quali erano le parole chiave per simulare grande competenza, e come le dovevi usare. Ne conservo ancora tre: Matematica, Marketing e Parigi, uno più spassoso dell’altro.

Insomma, a lungo andare, mi sono convinto che, per convincere, mi mancava la parola giusta. Così mi sono messo a cercare. Alla fine l’ho trovata. E, con gli occhi che brillavano ho esclamato: - Leidenfrost!!!-

Johann Gottlob Leidenfrost, medico e teologo prussiano, vissuto nel XVIII secolo, non si sarebbe mai aspettato di comparire, come autore di un articolo, sull’International Journal of Heat and Mass Transfer del novembre 1966. Il nostro, 210 anni prima, aveva pubblicato un trattatello intitolato De Aquae Communis Nonnullis Qualitatibus Tractatus. Lì, al capitolo De fixitate aquae diversa in igne, descriveva un curioso esperimento. Dopo aver scaldato un cucchiaio di ferro sulla fiamma fino a renderlo incandescente, vi faceva cadere una goccia d’acqua distillata, notando che questa goccia restava a lungo sul cucchiaio senza evaporare, muovendosi intorno quasi come se fosse sollevata da cucchiaio stesso.

Il fenomeno era certamente già noto a cuochi e rosticcieri, che ancora oggi lo usano come metodo empirico per verificare se una griglia è abbastanza calda per la cottura. Potete provarlo anche voi. Mettete una bistecchiera sul fuoco e, di quando in quando, bagnatela con qualche goccia d’acqua. Quando il metallo supera i 100 °C, l’acqua inizia ad evaporare rapidamente, e le gocce non sopravvivono che pochi istanti. Ma, quando arrivate intorno ai 200 °C, lo scenario cambia. Le gocce si mettono a viaggiare sulla bistecchiera come minuscoli hovercraft, resistendo molto più a lungo rispetto a quanto facevano a temperature inferiori.

La spiegazione del fenomeno è semplice. A temperature molto più alte del punto d’ebollizione, si produce una rapidissima evaporazione dell’acqua, a diretto contatto con la piastra. Il vapore, espandendosi, forma uno straterello-cuscinetto che solleva la goccia, isolandola dalla fonte di calore. Così la gocciolina è libera di muoversi sulla bistecchiera quasi senza attrito, e la sua evaporazione risulta estremamente rallentata dall'effetto isolante del vapore.

L’effetto inizia a presentarsi intorno ai 200 °C. Si manifesta al suo massimo verso i 210 °C, poi inizia lentamente a scemare, scomparendo quassi del tutto poco al di sopra dei 1000 °C. Forse l’avrete osservato anche con una semplice pentola piena d’acqua: sempre a causa di quel minuscolo straterello, la pentola posta su una piastra rovente, arriva a piena ebollizione in tempi più lunghi rispetto ad una piastra cha ha una temperatura di poco meno di 200 °C.

Sempre sfruttando l’effetto protettivo dell’evaporazione, tra l’Otto e il Novecento, si esibivano nelle fiere di paese energumeni coraggiosi che, dopo essersi bagnati le mani, le immergevano, per un istante, nel piombo fuso a 450 °C. E, anche chi cammina sui carboni ardenti, fa ampio utilizzo di questo fenomeno, sia camminando preventivamente sull'erba umida, sia approfittando della sudorazione dei piedi (la paura, a volte, è utile…).

Nel nostro piccolo, noi mettiamo le dita nell'azoto liquido, perché il fenomeno è assolutamente identico. L’azoto bolle a circa – 196 °C. Il che significa che il mio dito, per lui, è come una sorgente di calore a 333 °C per l’acqua. Siamo in pieno regime di Leidenfrost! Del resto, anche le goccioline d’azoto liquido che si muovono all'impazzata quando lo versiamo sul pavimento del laboratori, portando con sé lo sporco e raccogliendolo agli angoli delle pareti, sono parenti strette delle gocce d’acqua sulla bistecchiera. Realizzando un materiale con una superficie ad hoc, è perfino possibile farle muovere in salita…

Insomma, avevo trovato la mia parola magica. L’insolito articolo, intitolato On the fixation of water in diverse fire, era, naturalmente, una semplice traduzione inglese dell’originale capitoletto in latino. Subito di seguito, compariva un articolo di autori viventi: The Leidenfrost phenomenon: film boiling of liquid droplets on a flat plate. Fu così che il trapassato professore prussiano divenne noto ai posteri e la comunità scientifica cominciò a parlare di effetto Leidenfrost.

Ovviamente, volevo leggermi l’articoletto firmato “Johann Gottlob Leidenfrost, University of Duisburg, Germany”. Peccato che la mia Università non fosse abbonata a quell'annata della rivista, e che quei galantuomini mi chiedessero di sborsare $ 39.95… Sono incredibili le riviste scientifiche. Non pagano i referee, che devono giudicare la validità degli articoli per la pubblicazione. Non pagano gli autori. Anzi, spesso li fanno pagare (publication fee…). In compenso, risucchiano come sanguisughe i pochi fondi delle nostre povere biblioteche. Influiscono sulla distribuzione di fondi e posti con le loro politiche editoriali. E poi, se ti scoprono a copiare un articolo senza pagarlo, sono alquanto vendicative. Chissà se si sentono, anche solo un poco, responsabili per la scomparsa di un genio, che si chiamava Aaron Swarz.

Fortunatamente, la rete risolve molti problemi. Lo stesso testo si può trovare, gratuitamente, a questo indirizzo.

Così, mi sono potuto acculturare e ho imparato le parole giuste. Confesso che anche il testo latino ha un suo fascino. Per carità, è un latino per niente bello, lontano mille miglia da Cicerone e Tacito, ma anche dall’allegra dissacrazione di Teofilo Folengo. Eppure, quel guttam unam aquae purissimae distillatae, in corsivo nell’originale, si presta perfettamente ad essere citato.

Adesso ho risolto i miei problemi. Appena qualcuno obbietta, quando sto per immergere il dito, gli sparo con sicurezza quel perentorio “Leidenfrost!” e ogni critica viene stroncata sul nascere.

Insomma, anche nel mondo scientifico, a volte, l’apparenza conta più della sostanza…



P.S. A Leidenfrost sono debitore non solo di una riconquistata tranquillità, ma anche della possibilità di riunire, sotto un’unica parola, mille esperimenti affascinanti. Quando, alla richiesta di Geo & Geo di un nuovo tema per una puntata, ho risposto “effetto Leidenfrost”, mi hanno subito assecondato. La trasmissione andrà in onda domani pomeriggio, venerdì 18 gennaio. Mi auguro che vi diverta!













martedì 1 gennaio 2013

L’illusione dei sensi e il frutto dei miracoli


Federico, che ci segue dagli antipodi, tra salsicce di coccodrillo e filetti di canguro, mi chiedeva, un mese fa, di render pubblico l’elenco dei miei libri più amati. Compito troppo difficile e insidioso, per poter esser svolto in poche settimane. Non mi perdonerei mai di far torto a uno solo di loro, scordandolo. I libri sono tanto importanti e vanno trattati con rispetto. Proprio per questo, però, ne parlo sempre volentieri, e mi è venuta la tentazione di rispolverarne ogni volta qualcuno. Un po’ come faceva Montalbán, bruciandoli nel caminetto di Pepe Carvalho…

Una notizia, di cui vi parlerò più avanti, mi ha spinto ad estrarre dagli scaffali un altro di miei amati. Si intitola Art and visual perception: a psychology of the creative eye, di Rudolf Arnheim, tradotto in italiano con il titolo, ridotto e riduttivo, Arte e percezione visiva. E’ un grande classico della psicologia della Gestalt, che mi sta estremamente simpatica, perché ha riscoperto Aristotele prima degli scienziati.  Il suo stracitato motto, “Il tutto è maggiore della somma delle sue parti”, è preso pari pari dalla Metafisica. Ma, in realtà, si tratta di una traduzione scorretta delle parole di Kurt Koffka “Il tutto è diverso dalla somma delle sue parti”. Parole che precedono di decenni il celebrato More is different (‘Di più’ è diverso) di Philip Anderson, l’articolo che ha spiegato agli scienziati che, per capire il mondo, non basta smontarlo in pezzetti sempre più piccoli.

L’innamoramento è vecchio di quattro anni. Stavo preparando il mio intervento per l’edizione 2009 di Diálogos de Cocina. Il compito era come sempre arduo, perché sono gli organizzatori ad assegnarti il titolo. Dopo qualche trattativa eravamo arrivati ad un compromesso: “Emozioni, sensi e proprietà oggettive degli alimenti”. Ma ero talmente affascinato da quel libro che, parafrasandone il titolo, volevo scegliere per la mia conferenza “Gastronomia e percezione sensoriale: psicologia del palato creativo”.

A distanza di tempo, sono ancora molto legato a quel congresso e a quella “ponencia”. La prima metà del 2009 è stata il culmine della grande stagione della gastronomia d’avanguardia. Il momento della piena consapevolezza, dell’equilibrio, della riflessione. Sentivamo di essere saliti veramente in alto. Poi, con l’estate, arrivò la stramaledetta crisi. Rapidamente il mondo che avevamo costruito iniziava a crollare. Congressi annullati, eventi spostati, ristoranti che chiudono, altri che si ridimensionano. Due anni dopo, la chiusura del Bulli sancirà la fine d’un’epoca.

Ma, allora, era tutto diverso.

Si discuteva del ruolo che poteva avere la scienza nell'alta cucina, che, mai come prima, si era fatta arte. Due anni prima Ferran era stato invitato a Documenta, e il mondo artistico aveva riconosciuto ufficialmente la gastronomia come sua parte integrante. In quel contesto, vivo e stimolante, il mio intervento era provocatorio. Analizzavo il legame tra le proprietà fisico-chimiche del cibo e le sensazioni ed emozioni che suscita. Mostravo che quel legame è talmente flebile e indiretto, da rendere la cosiddetta analisi sensoriale un’inutile necessità. (Mi perdonerete l’ossimoro… ma da quando Simone Ferriani, che è un grande esperto di imprenditorialità, mi ha detto di pensare la stessa cosa del business plan, mi sento in ottima compagnia).

L’idea fondamentale è che la percezione sensoriale risulta dall'interazione dell’organismo con tutto l’ambiente in cui è immerso. Il cibo è uno dei protagonisti di questo intorno, ma non è l’unico. E lo stesso cibo, in situazioni diverse, produce stimoli differenti. Ma anche il degustatore è un fattore estremamente variabile. Cambia il suo stato d’animo, ma anche la sua forma fisica (avete provato a mangiare con il raffreddore?). Ma, anche limitandoci al solo cibo, i diversi ingredienti interagiscono sensorialmente in modo complesso, per nulla riducibile alla “somma” delle singole sensazioni.

Prendete un liquido acido. Un succo di limone acerbo. Aggiungete zucchero. L’acidità in senso chimico non cambia, il pH rimane inalterato. Ma in bocca l’acidità viene attenuata, fino a scomparire. E’ per questo motivo, tra l’altro, che si aggiunge lo zucchero alla passata di pomodoro. D’altra parte, la Coca Cola ci appare fondamentalmente dolce. Ma il suo pH è talmente basso che, a tempi del liceo, la usavamo per corrodere il marmo. Non si tratta di una proprietà specifica della molecola di saccarosio. Accade con tutti gli ingredienti dolci, inclusi gli edulcoranti sintetici.

In realtà, non occorre limitarsi al senso del gusto. I profumieri sanno bene che vaniglia e bergamotto, fiutati insieme, senza produrre nessuna reazione chimica, danno un odore simile a quello dell’ambra. E, quando studiavo al conservatorio, rimasi affascinato dal fenomeno del terzo suono di Tartini: due note suonate insieme con potenza sufficiente, generano, nel nostro orecchio, ma non nell'aria  una terza nota con frequenza pari alla differenza delle loro frequenze.

Per non parlare della sinestesia dei sensi: l’aroma di vaniglia aumenta la sensazione di dolcezza, quello di limone la sensazione di acidità…

Il discorso sarebbe lunghissimo e andrebbe ripreso, a puntate. Ma il succo di tutto è che i nostri sensi non sono strumenti di misura, nel significato scientifico del termine. Se ammettiamo che esiste una realtà oggettiva, allora i nostri sensi non sono i mezzi più idonei per coglierla. Niente di nuovo: è proprio per questo che si siamo inventati strumentazioni precise e sofisticate. E poi, parliamo di illusioni ottiche, di illusioni acustiche…

E’ proprio dall'illusione dei sensi che nasce la magia dell’arte.

Il palato del gourmet non analizza, si lascia sedurre. O, meglio ancora, analizza una verità sensoriale, che non coincide con la realtà fisica, così come la intendiamo comunemente.

Tutte le arti parlano ai sensi, prima ancora che alla ragione. Anche la pittura, che sembra riprodurre fedelmente il mondo, gioca sull'illusione  “Il mistero della rappresentazione prospettica – scrive il nostro Arnheim - sta nel fatto che fa sembrare giuste le cose facendole sbagliate”.

Ma, finora, abbiamo parlato di piccoli camuffamenti. La piena consapevolezza di come i sensi possano letteralmente stravolgere le proprietà oggettive del cibo, mi colse intorno alla metà degli anni ’90, quando, Fritz Blank mi fece provare il frutto dei miracoli. Provare, non assaggiare. Perché le bacche rosse di Synsepalum dulcificum (questo è il suo nome scientifico) non sanno di niente. Solo che, dopo che le hai mangiate, per un’ora buona, tutti le bevande e i cibi acidi che assumi ti sembrano incredibilmente dolci. Non si tratta di un attenuamento dell’acidità, ma di un’autentica trasformazione percettiva dell’acido in dolce: l’ho provato di persona con soluzioni concentrate di acido citrico.

Il frutto dei miracoli è originario dell’Africa occidentale e noto alle popolazioni indigene da tempo immemorabile. La prima documentazione ufficiale del suo utilizzo viene dall'esploratore francese Reynaud Des Marchais, che racconta di averne visto consumare le bacche prima dei pasti nel suo viaggio del 1725.

Le sue proprietà “miracolose”, oggi, si possono considerare fondamentalmente spiegate. La polpa di Synsepalum dulcificum contiene una glicoproteina, che prende proprio il nome di miracolina, in grado di legarsi alle papille gustative e di modificarne il comportamento, stimolando i recettori del sapore dolce quando viene a trovarsi in ambiente acido.

In Italia il frutto dei miracoli è poco conosciuto. Ma, in Giappone, è già popolarissimo. Dal 2005 a Tokio furoreggia il Miracle Fruit Cafè, dove si possono stregare i sensi assumendo i frutti di miracoli prima di degustare cibi acidissimi.

Nel mio laboratorio, da diverso tempo, tengo sempre in dispensa qualche scatola di pasticche di miracolina, che mi procuro, ovviamente, all'estero  A volte, ci divertiamo ad assaggiare vini acidissimi dopo aver ipnotizzato i sensi, con risultati ogni volta sorprendenti.

Ma il frutto dei miracoli ora è destinato a diventare popolarissimo anche in occidente. Da oggi, 1 gennaio 2013, è finalmente in commercio il nuovo libro di Homaro Cantu, il pirotecnico chef molecolare di Chicago, intitolato The Miracle Berry Diet Cookbook. Si tratta di un vero e proprio ricettario di preparazioni ipocaloriche che, dopo aver assunto pasticche di miracolina, sono dolcissime al palato.

L’idea di Homaro è di creare una vera e propria alternativa alla cucina dolce, in chiave dietetica.

In realtà, le cose non sono così semplici.

Lo zucchero, in pasticceria, riveste molto spesso un ruolo strutturale, e non solo dolcificante. Avete mai provato a fare una meringa con l’aspartame? E poi… come convenivo qualche settimana fa con un amico medico, mangiare acido non fa così bene. L’acidosi è una delle cause principali della cellulite. Sarebbe curioso vedere le signore salutiste, che fuggono inorridite dai carboidrati, cadere rovinosamente nella trappola degli inestetici cuscinetti…

In tutta questa euforia di novità, qualche giorno fa, guardavo sullo schermo del computer la copertina del libro di Cantu. Mi si avvicina Yansong, la giovane recluta cinese del laboratorio, e si informa. Poi, con un sorrisino tutto orientale, mi dice: “Nuovo? A me lo davano da bambino per farmi prendere le medicine!”.

Non si finisce mai di imparare…

Buon Anno!

____________________________________________________________________________________