martedì 1 gennaio 2013

L’illusione dei sensi e il frutto dei miracoli


Federico, che ci segue dagli antipodi, tra salsicce di coccodrillo e filetti di canguro, mi chiedeva, un mese fa, di render pubblico l’elenco dei miei libri più amati. Compito troppo difficile e insidioso, per poter esser svolto in poche settimane. Non mi perdonerei mai di far torto a uno solo di loro, scordandolo. I libri sono tanto importanti e vanno trattati con rispetto. Proprio per questo, però, ne parlo sempre volentieri, e mi è venuta la tentazione di rispolverarne ogni volta qualcuno. Un po’ come faceva Montalbán, bruciandoli nel caminetto di Pepe Carvalho…

Una notizia, di cui vi parlerò più avanti, mi ha spinto ad estrarre dagli scaffali un altro di miei amati. Si intitola Art and visual perception: a psychology of the creative eye, di Rudolf Arnheim, tradotto in italiano con il titolo, ridotto e riduttivo, Arte e percezione visiva. E’ un grande classico della psicologia della Gestalt, che mi sta estremamente simpatica, perché ha riscoperto Aristotele prima degli scienziati.  Il suo stracitato motto, “Il tutto è maggiore della somma delle sue parti”, è preso pari pari dalla Metafisica. Ma, in realtà, si tratta di una traduzione scorretta delle parole di Kurt Koffka “Il tutto è diverso dalla somma delle sue parti”. Parole che precedono di decenni il celebrato More is different (‘Di più’ è diverso) di Philip Anderson, l’articolo che ha spiegato agli scienziati che, per capire il mondo, non basta smontarlo in pezzetti sempre più piccoli.

L’innamoramento è vecchio di quattro anni. Stavo preparando il mio intervento per l’edizione 2009 di Diálogos de Cocina. Il compito era come sempre arduo, perché sono gli organizzatori ad assegnarti il titolo. Dopo qualche trattativa eravamo arrivati ad un compromesso: “Emozioni, sensi e proprietà oggettive degli alimenti”. Ma ero talmente affascinato da quel libro che, parafrasandone il titolo, volevo scegliere per la mia conferenza “Gastronomia e percezione sensoriale: psicologia del palato creativo”.

A distanza di tempo, sono ancora molto legato a quel congresso e a quella “ponencia”. La prima metà del 2009 è stata il culmine della grande stagione della gastronomia d’avanguardia. Il momento della piena consapevolezza, dell’equilibrio, della riflessione. Sentivamo di essere saliti veramente in alto. Poi, con l’estate, arrivò la stramaledetta crisi. Rapidamente il mondo che avevamo costruito iniziava a crollare. Congressi annullati, eventi spostati, ristoranti che chiudono, altri che si ridimensionano. Due anni dopo, la chiusura del Bulli sancirà la fine d’un’epoca.

Ma, allora, era tutto diverso.

Si discuteva del ruolo che poteva avere la scienza nell'alta cucina, che, mai come prima, si era fatta arte. Due anni prima Ferran era stato invitato a Documenta, e il mondo artistico aveva riconosciuto ufficialmente la gastronomia come sua parte integrante. In quel contesto, vivo e stimolante, il mio intervento era provocatorio. Analizzavo il legame tra le proprietà fisico-chimiche del cibo e le sensazioni ed emozioni che suscita. Mostravo che quel legame è talmente flebile e indiretto, da rendere la cosiddetta analisi sensoriale un’inutile necessità. (Mi perdonerete l’ossimoro… ma da quando Simone Ferriani, che è un grande esperto di imprenditorialità, mi ha detto di pensare la stessa cosa del business plan, mi sento in ottima compagnia).

L’idea fondamentale è che la percezione sensoriale risulta dall'interazione dell’organismo con tutto l’ambiente in cui è immerso. Il cibo è uno dei protagonisti di questo intorno, ma non è l’unico. E lo stesso cibo, in situazioni diverse, produce stimoli differenti. Ma anche il degustatore è un fattore estremamente variabile. Cambia il suo stato d’animo, ma anche la sua forma fisica (avete provato a mangiare con il raffreddore?). Ma, anche limitandoci al solo cibo, i diversi ingredienti interagiscono sensorialmente in modo complesso, per nulla riducibile alla “somma” delle singole sensazioni.

Prendete un liquido acido. Un succo di limone acerbo. Aggiungete zucchero. L’acidità in senso chimico non cambia, il pH rimane inalterato. Ma in bocca l’acidità viene attenuata, fino a scomparire. E’ per questo motivo, tra l’altro, che si aggiunge lo zucchero alla passata di pomodoro. D’altra parte, la Coca Cola ci appare fondamentalmente dolce. Ma il suo pH è talmente basso che, a tempi del liceo, la usavamo per corrodere il marmo. Non si tratta di una proprietà specifica della molecola di saccarosio. Accade con tutti gli ingredienti dolci, inclusi gli edulcoranti sintetici.

In realtà, non occorre limitarsi al senso del gusto. I profumieri sanno bene che vaniglia e bergamotto, fiutati insieme, senza produrre nessuna reazione chimica, danno un odore simile a quello dell’ambra. E, quando studiavo al conservatorio, rimasi affascinato dal fenomeno del terzo suono di Tartini: due note suonate insieme con potenza sufficiente, generano, nel nostro orecchio, ma non nell'aria  una terza nota con frequenza pari alla differenza delle loro frequenze.

Per non parlare della sinestesia dei sensi: l’aroma di vaniglia aumenta la sensazione di dolcezza, quello di limone la sensazione di acidità…

Il discorso sarebbe lunghissimo e andrebbe ripreso, a puntate. Ma il succo di tutto è che i nostri sensi non sono strumenti di misura, nel significato scientifico del termine. Se ammettiamo che esiste una realtà oggettiva, allora i nostri sensi non sono i mezzi più idonei per coglierla. Niente di nuovo: è proprio per questo che si siamo inventati strumentazioni precise e sofisticate. E poi, parliamo di illusioni ottiche, di illusioni acustiche…

E’ proprio dall'illusione dei sensi che nasce la magia dell’arte.

Il palato del gourmet non analizza, si lascia sedurre. O, meglio ancora, analizza una verità sensoriale, che non coincide con la realtà fisica, così come la intendiamo comunemente.

Tutte le arti parlano ai sensi, prima ancora che alla ragione. Anche la pittura, che sembra riprodurre fedelmente il mondo, gioca sull'illusione  “Il mistero della rappresentazione prospettica – scrive il nostro Arnheim - sta nel fatto che fa sembrare giuste le cose facendole sbagliate”.

Ma, finora, abbiamo parlato di piccoli camuffamenti. La piena consapevolezza di come i sensi possano letteralmente stravolgere le proprietà oggettive del cibo, mi colse intorno alla metà degli anni ’90, quando, Fritz Blank mi fece provare il frutto dei miracoli. Provare, non assaggiare. Perché le bacche rosse di Synsepalum dulcificum (questo è il suo nome scientifico) non sanno di niente. Solo che, dopo che le hai mangiate, per un’ora buona, tutti le bevande e i cibi acidi che assumi ti sembrano incredibilmente dolci. Non si tratta di un attenuamento dell’acidità, ma di un’autentica trasformazione percettiva dell’acido in dolce: l’ho provato di persona con soluzioni concentrate di acido citrico.

Il frutto dei miracoli è originario dell’Africa occidentale e noto alle popolazioni indigene da tempo immemorabile. La prima documentazione ufficiale del suo utilizzo viene dall'esploratore francese Reynaud Des Marchais, che racconta di averne visto consumare le bacche prima dei pasti nel suo viaggio del 1725.

Le sue proprietà “miracolose”, oggi, si possono considerare fondamentalmente spiegate. La polpa di Synsepalum dulcificum contiene una glicoproteina, che prende proprio il nome di miracolina, in grado di legarsi alle papille gustative e di modificarne il comportamento, stimolando i recettori del sapore dolce quando viene a trovarsi in ambiente acido.

In Italia il frutto dei miracoli è poco conosciuto. Ma, in Giappone, è già popolarissimo. Dal 2005 a Tokio furoreggia il Miracle Fruit Cafè, dove si possono stregare i sensi assumendo i frutti di miracoli prima di degustare cibi acidissimi.

Nel mio laboratorio, da diverso tempo, tengo sempre in dispensa qualche scatola di pasticche di miracolina, che mi procuro, ovviamente, all'estero  A volte, ci divertiamo ad assaggiare vini acidissimi dopo aver ipnotizzato i sensi, con risultati ogni volta sorprendenti.

Ma il frutto dei miracoli ora è destinato a diventare popolarissimo anche in occidente. Da oggi, 1 gennaio 2013, è finalmente in commercio il nuovo libro di Homaro Cantu, il pirotecnico chef molecolare di Chicago, intitolato The Miracle Berry Diet Cookbook. Si tratta di un vero e proprio ricettario di preparazioni ipocaloriche che, dopo aver assunto pasticche di miracolina, sono dolcissime al palato.

L’idea di Homaro è di creare una vera e propria alternativa alla cucina dolce, in chiave dietetica.

In realtà, le cose non sono così semplici.

Lo zucchero, in pasticceria, riveste molto spesso un ruolo strutturale, e non solo dolcificante. Avete mai provato a fare una meringa con l’aspartame? E poi… come convenivo qualche settimana fa con un amico medico, mangiare acido non fa così bene. L’acidosi è una delle cause principali della cellulite. Sarebbe curioso vedere le signore salutiste, che fuggono inorridite dai carboidrati, cadere rovinosamente nella trappola degli inestetici cuscinetti…

In tutta questa euforia di novità, qualche giorno fa, guardavo sullo schermo del computer la copertina del libro di Cantu. Mi si avvicina Yansong, la giovane recluta cinese del laboratorio, e si informa. Poi, con un sorrisino tutto orientale, mi dice: “Nuovo? A me lo davano da bambino per farmi prendere le medicine!”.

Non si finisce mai di imparare…

Buon Anno!

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2 commenti:

  1. Prodotto interessante questa miracolina.
    In pratica l'idea è quella di appagare il desiderio di dolci con pietanze molto meno caloriche.
    Mi chiedo però: il desiderio di cibi dolci si appaga solo a livello di gusto o anche con qualche effetto metabolico?
    Inoltre, anche se non avendo visto le ricette non posso giudicare, l'aspetto visivo non è importante?
    Voglio dire che l'effetto di uno spicchio di arancia o di limone che al palato risulta dolce non è esattamente come quello di una fetta di torta al cioccolato.
    Buon anno!
    Nicolò

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  2. Buon Anno Nicolò!
    Il desiderio di dolci, ormai, è indipendente dalle nostre esigenze fisiologiche. Altrimenti non avremmo problemi di diete! Per appagare quella voglia, che eccede i bisogni nutrizionali, ci siamo inventati gli edulcoranti artificiali. Al di là delle differenze gastronomiche, anche il loro effetto sull'organismo è diverso. Gli zuccheri veri, in misura diversa, fanno crescere la glicemia, il che provoca un aumento d'appetito, innescando un terribile circolo vizioso. Non a caso, siamo soliti prendere il dessert a fine pasto, quando nel nostro stomaco non c'è più spazio...

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