domenica 28 luglio 2013

Quella volta che la scienza

imparò dalla cucina




Ho un caro amico d’Oltralpe, che ritiene la Scienza superiore a tutto, e la cucina solo una piacevole applicazione dei suoi principii.

Un altro, cisalpino ed erudito, trova disgustoso che i cuochi moderni usino quel gel d’alghe, su cui i microbiologi coltivano i batteri.

Un altro ancora, giornalista, sostiene che solo grazie al genio di Ferran ora sappiamo che l’agar-agar è l’ingrediente giusto per le gelatine calde.

Per non parlare di quel mio vecchio professore, che ha iniziato ad arricciare il naso la prima volta che mi ha visto passare per il corridoio con una pentola in mano e, siccome non ho più smesso, si ritrova col muso irreversibilmente rincagnato.

A tutti costoro, voglio dedicare la storia, simpatica ed istruttiva, che sto per raccontarvi.  Ricostruita, com'è mio scrupolo ed uso, sui documenti originali.

Era luglio, luglio come adesso, e, nel Nordest dell’Italia ancora disunita, faceva un terribile caldo afoso. Per quanto, s’intende, potesse far caldo nel 1819, ovvero nel pieno del secolo più freddo del millennio. Il raccolto del mais dell’autunno precedente era stato fantastico e sulle tavole del popolo abbondava la polenta. E se ne faceva talmente tanta che poi durava due o tre giorni. Ovviamente fuori frigo, visto che John Gorrie non l’aveva ancora inventato.   Ora, voi moderni vi stupireste ritrovandovi servito, in una soffocante serata padana, un cibo considerato prettamente invernale. Ma, due secoli fa, la polenta era il pane quotidiano dei poveri e dei contadini. D’altra parte, il simpatico appellativo “polentoni”, una sua giustificazione storica la deve ben avere.

Immaginate dunque la strana sensazione che dovette provare il signor Borgato, “colono del territorio padovano”, quando, un bel giorno di prima estate, vide la sua polenta sanguinare.

Oggi, notando la comparsa di macchie rosse sulla polenta del giorno precedente, potremmo reagire in tanti modi. C’è chi, semplicemente, la getterebbe. Ci consulterebbe internet cercando spiegazioni. Chi chiamerebbe l’ASL. Ma, allora, si pensava più comunemente ad un prodigio o ad una maledizione. In entrambi i casi, la scelta era obbligata: chiamare il prete. Per l’occasione, si scomodò addirittura l’abate Melo. Ma, visto che il fenomeno non aveva nulla di soprannaturale, riti e benedizioni non sortirono alcun effetto. Anzi. Lo strano caso della polenta sanguinante si diffuse in altre case, suscitando spavento ma pure maldicenze: le malelingue attribuivano ai malcapitati contadini inconfessabili colpe, che avrebbero provocato quella curiosa punizione. Tra i più colpiti dal venticello della calunnia, le cronache ricordano un tale Antonio Pittarello di Legnaro, paese del padovano oggi ben noto nel mondo scientifico. Si cominciava ad esagerare. O, almeno così penso la Polizia del neonato Regno Lombardo-Veneto. E, siccome agli austriaci le esagerazioni non andavano a genio, venne nominata una commissione, “principalmente composta de’ professori chiarissimi dell’Università di Padova”, per dirimere la questione. 

Come accade ancora oggi, gli illustri esperti di nomina governativa ispezionarono, si consultarono e relazionarono, senza capirci un accidente.

Viceversa, un ventottenne studente di farmacia in quarantott’ore risolse il dilemma.

Bartolomeo Bizio, che veniva dalla campagna vicentina, con la polenta aveva una certa dimestichezza. Per cui, invece di consultare libri ed esperti, fece l’unica cosa che fa in questi casi uno scienziato vero. Esperimenti.

Preparò la sua polenta e la espose all'aria calda e umida, fino a farla contaminare dalle macchie rosse. Poi, provò che la contaminazione si poteva propagare, sia per contatto che a distanza, ad altri pezzi di polenta. Infine, riuscì a inattivare la propagazione con i vapori di zolfo e le alte temperature. Ne concluse che il fenomeno della “polenta porporina” era dovuto a quello che oggi chiamiamo un batterio. Lui la chiamava pianticella, e la battezzò Serratia Marcescens, per vendicare l’onore di un monaco toscano.  Nello specifico, di Serafino Serrati, che inventò il battello a vapore prima di Fulton ma, siccome non era americano, cadde nell'oblio.

Bizio divulgò la scoperta il 22 di agosto. Due giorni dopo la notizia già stava sulla Gazzetta. In seguito, si trovò a polemizzare con l’abate Melo. Quest’ultimo sosteneva che il fenomeno della polenta sanguinante era dovuto alla permanenza all’aria per tempi di due o tre giorni. Ma gli esperimenti del giovane di Costozza di Longare mostravano tutt’altro. La Serratia si sviluppava nelle prime 24 ore. Poi subentravano le muffe, che la distruggevano: “anzi oltre un tale periodo s' alzano con rigoglio le altre muffe, le quali impediscono efficacemente l'accennata colorazione. In questa circostanza si osserva in piccolo quello, che in grande suole addivenire, cioè che le piante di maggior levatura abbattono così le piccine, che fatte tisicuzze pel danno che ricevono, terminano alla per fine col perire intieramente.” 
Qualcuno noterà in queste parole antiche un’osservazione profetica…

Di fatto, Bartolomeo Bizio non aveva soltanto scoperto la Serratia Marcescens.  Con i suoi esperimenti tra i fornelli, aveva introdotto la tecnica di coltivazione e riproduzione dei batteri su substrato solido.

Passarono otto lustri. Arrivò Pasteur e nacque la microbiologia moderna. Pasteur confutò la teoria della generazione spontanea facendo bollire un brodo di carne. E nei bordi continuò a coltivare i suoi microorganismi.  I substrati liquidi però avevano un problema: nei bordi tutto si mescola ed è impossibile separare i diversi ceppi batterici. Cosa che invece si poteva fare sulla polenta, dove le varie macchie porporine crescevano separate. La soluzione era proprio il substrato solido. Nel 1872 Joseph Schröter riesce ad isolare diversi batteri cromogeni utilizzando substrati gastronomici: patate, albume d’uovo, cotto, gel di amidi, carne. Il metodo, però, era di applicazione limitata. Quando i batteri non erano del tipo che genera pigmenti, accadeva spesso che il loro colore si confondesse con quello del substrato. Che, d’altra parte, non poteva essere cambiato a piacimento: ogni batterio ha le sue preferenze alimentari…

Nove anni dopo, Robert Koch trovò la chiave del dilemma: il substrato doveva essere solido, trasparente e sterile. E in grado di incorporare il brodo nutriente adeguato. C’era un ovvio candidato ideale a questo ruolo: la gelatina animale, meglio conosciuta come colla di pesce, che il micologo lombardo Carlo Vittadini aveva iniziato ad usare trent'anni prima.

Koch iniziò a rivestire di gelatina il fondo delle basse capsule cilindriche di vetro, che il suo assistente Julius Richard Petri aveva inventato per lui. La ricerca subì una rapida accelerazione. Ma, come sempre, i problemi non erano finiti.

La gelatina aveva due grossi difetti. Tanto per iniziare, essendo un gel di proteine, poteva essere distrutta dai microorganismi proteolitici.  E poi, soprattutto, tornava inesorabilmente allo stato liquido quando la si scaldava fino a 37°C. Un bel problema, quando si deve simulare lo sviluppo batterico nelle condizioni termiche del corpo umano…

Probabilmente Koch non aveva la stessa dimestichezza con la cucina dei suoi predecessori. Ma aveva tanti collaboratori ed allievi, più o meno illustri.

Walther Hesse all’epoca faceva il medico condotto a Schwarzenberg, in Sassonia. Nell’inverno 1881-1882 trascorse un periodo di studio presso il laboratorio di Robert Koch a Berlino, spinto dall’interesse ad indagare la presenza nell’aria. Negli anni precedenti, il suo iter scientifico l’aveva portato a girare l’Europa ed il mondo. Nel 1872, mentre era medico di bordo sulle navi per New York, studiò per primo il mal di mare. E, durante il soggiorno nell’attuale Grande Mela, gli presentarono una famiglia di emigranti olandesi di nome Eilshemius. Tra lui e la figlia maggiore, Fanny Angelina, dovette scoccare una scintilla. Perché, qualche mese dopo, durante un viaggio in Svizzera degli Eilshemius, Fanny Angelina, accompagnata dalla sorella si allunga fino a Dresda per rivedere Walther. L’estate dopo si fidanzano e si sposano a Ginevra nel 1874.

Lina, come la chiamava Walther, era un’ottima cuoca e disegnatrice. Divenne a tutti gli effetti la sua assistente nel laboratorio casalingo che aveva messo in piedi a Schwarzenberg. E lo aiutava nei suoi esperimenti con tubi di vetro rivestiti all’interno di gelatina, per catturare i batteri dell’aria. Le gelatina era un vero guaio anche per Hesse. Sul più bello, gli si scioglieva, rendendo vana ogni fatica.

Stranamente, non si scioglievano mai le meravigliose gelatine di frutta e verdura che Frau Lina preparava in cucina, con la ricetta di mamma. Ricetta che, a quest’ultima era stata insegnata da un vicino di casa olandese, che aveva vissuto per un certo periodo a Giava. A Giava, come in molti paesi limitrofi, fa molto caldo, e la colla di pesce sarebbe del tutto inutile per produrre cibi solidi. Fortunatamente, laggiù abbondano diverse specie di utilissime alghe rosse, da cui si estrae un gelificante, che chiamiamo agar-agar, perfetto per la cucina dei climi tropicali. Le gelatine che produce resistono solide fino a circa 90°C. L’agar-agar era diffusissimo nelle cucine dell’estremo oriente e sui mercati internazionali. Per cui Lina non aveva difficoltà a procurarselo e ad utilizzarlo per le sue ricette casalinghe. Le venne del tutto naturale suggerire al marito di usarlo per rivestire i tubi al posto della malefica colla di pesce.

 Walther l’ascoltò ed ebbe finalmente successo.

E fu la rivoluzione. 

Il dottor Hesse comunicò la notizia a Koch, che immediatamente ne fece tesoro. Grazie alle capsule di Petri, rivestite di agar-agar, isolò il bacillo della tubercolosi.

Dalla polenta di Bizio alle gelatine di Frau Hesse erano passati poco più di sessant’anni.

Per dare un’ultima soddisfazione a Bartolomeo e Lina, facciamo un altro passo in avanti di quarant’anni. Siamo a Londra, in un laboratorio del Saint Mary Hospital. Le capsule di Petri rivestite di agar-agar sono ormai uno standard. Oltre a coltivare i batteri, ora si cerca di farli fuori, senza nuocere al corpo umano che li ospita. A un ricercatore scozzese un po’ originale, o distratto, gocciola il naso su una di queste capsule. Miracolo: dove è caduto il muco, i batteri non si sviluppano. Il ricercatore scopre il lisozima e le sue proprietà antibatteriche. E’ un successo parziale, perché i batteri più cattivi del lisozima se ne fanno un baffo. Così il nostro va avanti. Nell’estate del 1928 evidentemente ha bisogno di riposo e se ne va in vacanza in campagna. Doveva avere molta fretta di partire, perché, invece di ripulire per bene il bancone dagli esperimenti finiti, sbatte in un angolo, accatastate, tutte le capsule di Petri piene di agar-agar e di batteri. Quando torna, a settembre, ovviamente trova quasi tutto ammuffito. Getta le capsule in un vassoio riempito di Lysol per disinfettarle, ma sono talmente tante che non riesce a sommergerle tutte. Arriva a trovarlo un suo ex assistente e, per fargli vedere con quanta mole di lavoro l’aveva lasciato, gli mostra il cumulo di capsule sul vassoio. Va da sé che sulla cima del mucchio la muffa non se n’era andata. Anzi, si era sviluppata tanto da far fuori una colonia di Staphylococcus aureus. Che curiosa coincidenza con le muffe sulla polenta di Bizio…

Se il nostro distratto ricercatore fosse vissuto a Napoli, l’avrebbero soprannominato Alex ‘o zuzzus. Ma gli anglosassoni non si lasciano andare a queste simpatiche iniziative, per cui lo chiamavano semplicemente Alexander Fleming. Quel giorno, Sir Alexander scoprì la penicillina.

Non possiamo nemmeno contare il numero di vite salvate grazie a questa affascinante successione di eventi. 

Che sarebbe accaduto, se  Frau Lina avesse detestato cucinare?


Rendiamo omaggio a questa fantastica donna di casa e di cucina. 
Che ha tutti gli indici bibliometrici rigorosamente nulli. 
Ma ha giovato, alla scienza e all'umanità, molto più di migliaia di accademici titolati.



Lina e Walther

Bartolomeo