lunedì 25 maggio 2020

Ode alle lezioni dal vivo

Homo sumhumani nihil a me alienum puto.

Sono tornato in laboratorio, dopo due mesi d’astinenza.

Da solo, lungo i corridoi vuoti, con la mascherina sul volto, camminavo in un ambiente surreale. Fuori, la gente che torna a vivere, i ragazzi che si incontrano, parlano, ridono.
Dentro, il vuoto.
Le regole sono ferree: se la stanza non supera i 40mq, ci può lavorare solo una persona. Altrimenti, si può stare in due, non di più. Grazie al cielo, di laboratori ne gestisco quattro e i miei collaboratori riesco a distribuirli bene. Fissiamo i turni su Teams, tutto sotto controllo.
Ad essere ottimisti, potresti dire che lo scenario è lo stesso che trovi quando vai il sabato o la domenica: si entra con la scheda magnetica e non si incontra quasi nessuno. Ma, nei giorni di chiusura, di solito si va per le emergenze: a controllare che tutto sia a posto, a dare un’occhiata a un esperimento lungo. L’aspetto sconvolgente è che questa dovrebbe essere la nuova normalità. Per quanto tempo, non è dato saperlo.
Ma non si può continuare per sempre così.
Ci sono esperimenti che non puoi fare da solo. Atri che, in ogni caso, richiedono tanti occhi ad osservare. La ricerca vera non si fa schiacciando un bottone e registrando numeri e curve su uno schermo. Quando esplori l’ignoto, devi allertare tutti i sensi e confrontarti con i compagni d’avventura.

Per fare lezione, devo tornare a casa.

All'inizio, abbiamo provato a scrivere dispense d’emergenza, da leggere, discutere e poi studiare. Poi è arrivato l’ordine delle videolezioni: da registrare, per provare che stavamo facendo il nostro dovere. Con anni di televisione alle spalle, ho iniziato a tremare: senza uno studio di registrazione, senza regia, senza montaggio… veramente pensiamo di essere dei maghi che, in presa diretta, catturano per ore l’attenzione del povero studente davanti allo schermo di un computer, magari in un angolino risicato di una casa viva e rumorosa? Da ragazzi, si giocava a calcio alla viva il parroco!. Ora, se tornasse in vita, Gianni Brera direbbe che facciamo teledidattica alla viva il rettore!.

Ho iniziato con brevi videopillole su YouTube, tastando la risposta degli studenti in chat. Ma il coinvolgimento mancava. Allora ho osato la diretta in streaming. Tutto sommato, sarebbe comunque stato meglio. Al secondo semestre, insegno Fisica della materia soffice alla Laurea Magistrale in Fisica. Ho quattro studenti, quest’anno: almeno posso vederli in faccia. Con tempo e pazienza abbiamo rotto il ghiaccio. Abbiamo impostato un’attività sperimentale da fare a casa. Ognuno s’è costruito la strumentazione necessaria, ha girato i video degli esperimenti, ha raccolto i dati. Abbiamo discusso e ragionato insieme.

Non sono certo allergico alle innovazioni. Da qualche anno insegno ad usare lo smartphone come strumento di misura; insegno a fotografare, filmare, analizzare, tutto quello che ci capita sotto gli occhi di interessante.

Eppure, mi manca ancora qualcosa di fondamentale.

Quindici anni fa, mentre scrivevo il Manifesto delle cucina molecolare Italiana, avevo ben chiaro quale dovesse essere il rapporto tra vecchio e nuovo:


1 Ogni novità deve ampliare, non distruggere, la tradizione gastronomica italiana.


Mi piace molto l’idea di queste attività domestiche da condividere in rete. Mi piace l’idea di addestrare gli studenti alle videoconferenze. Trovo utilissimo insegnare ai miei ragazzi come realizzare un video degno di pubblicazione in rete: il nuovo linguaggio della comunicazione ormai è questo, lasciamo Powerpoint alle vecchie generazioni.

Eppure, mi manca l’aula, mi manca la presenza reale, mi manca la condivisione di uno spazio fisico comune.

La didattica non è fatta solo di immagini e suoni. Si basa su un’empatia che nasce dalla condivisone.

 Condividere un’aula è vedere gli oggetti sotto la stessa luce, respirare la stessa aria, provare caldo o freddo insieme. Scambiare uno sguardo, una parola bisbigliata. Vivere una quotidianità comune, conoscersi attraverso i gesti e i movimenti più banali, vestiti ed accessori. Parlare, soprattutto, di mille cose, al di fuori dello schema rigido di una lezione.

Insegnante, figlio di insegnanti, sono nato e cresciuto nel mondo della scuola. Mio padre insegnava ai geometri. Mia madre, all'istituto magistrale, ha insegnato la matematica a generazioni maestre della mia città. In quella vecchia scuola, in cui la didattica era qualcosa di serio e quasi sacro, si ripeteva come un mantra una frase apparentemente ingenua: 

Per insegnare il latino a Pierino,
devi conoscere il latino e devi conoscere Pierino
”.

Di Pierini ne ho conosciuti qualche migliaio, nei miei lunghi anni di insegnamento. Ho iniziato al principio del 1987, alle scuole superiori: a pochi mesi dalla laurea, i miei genitori mi spinsero a provare subito il lavoro a cui mi sentivo chiamato. Ho provato tante scuole e poi l’università. I miei Pierini, di anno in anno, cambiavano modo di vestire, di parlare, di divertirsi. Poterli osservare da vicino è stato incredibilmente importante per capire come rivolgermi loro, per riuscire a farmi capire, cambiando di volta in volta parole e modi. Mi adattavo a Pierino e al mondo intorno. Si alternavano le stagioni, giorni di pioggia e giorni di sole. Sembra banale, ma il tempo fuori ci influenza: con la pioggia o col sole, parliamo e recepiamo diversamente. L’importante è essere sintonizzati sulla stessa modalità. Cosa molto difficile, se io parlo in video da Parma, mentre il mio studente Erasmus mi segue da Francoforte.

È un’emergenza, ci ripetiamo. Le emergenze si superano e servono ad imparare e migliorarsi. È un’emergenza e ce la stiamo cavando.

Poi, però, si fanno sempre più ricorrenti le voci di una proroga al prossimo anno accademico. Chi dice che si continuerà così al primo semestre. Chi teme anche al secondo. Chi auspica, entusiasta, che questa diventi la nuova normalità.

Ed io comincio a sudare freddo, perché al primo semestre ho il corso a Scienze Gastronomiche, con più di trecento studenti. Vederli in faccia, anche a distanza, è impossibile. Sarà una recita davanti a una telecamera. Uno spettacolo teatrale senza pubblico in sala. Senza il feedback degli sguardi e dei piccoli gesti che ti indirizzano durante il tuo lungo monologo. Chi ama il teatro sa quanto perde quando viene filmato. Chi ama il cinema sa che il suo linguaggio è altra cosa. Se continua così, dovremo spostarci nella direzione del cinema. Accettare l’ossimoro di una lezione senza studenti. Che è come il caffè decaffeinato, la birra analcolica, il pesto senz’aglio. Si può fare, certo, ma resta un blando surrogato. Nelle emergenze si può accettare, in mancanza di meglio, come abbiamo accettato il delivery dal ristorante stellato. Ma la normalità è riempire sale e tavoli, aule e banchi.

A meno che questa non sia solo la punta dell'iceberg. L’ultimo atto di quella strisciante tendenza a spersonalizzare la didattica, ad inquadrare in schemi precostituiti il rapporto studente docente. Ad illudersi che una lezione ben fatta si possa registrare e riproporre nello stesso modo a chiunque. Quella tendenza che, sotto le spoglie di una seria e scientifica oggettività, tende a disumanizzare l’insegnamento e a irregimentarlo in codici prefissati, che fanno qua e là capolino con termini dal suono sinistro, come Syllabus e Indicatori di Dublino.

L’altro giorno un vecchio amico e collega mi ha confessato che, se le cose andranno così, chiederà il pensionamento anticipato. Gli ho detto che non deve tirarsi indietro. Che è proprio la generazione che ha sperimentato l’università vera a dover continuare a vivere e lottare.

Se la deriva spersonalizzante continuerà ad imperversare, organizzerò lezioni clandestine nei prati o nelle sale fumose delle bettole di periferia.

Non saremo complici di chi vuol trasformare l’università, da culla di grandi idee, progetti e sogni, in un triste diplomificio a distanza.



lunedì 18 febbraio 2019

Ricominciamo


La casa sulla Rambla, come nove anni fa. Le bandiere nelle strade, però, sono cambiate e i miei amici portano un nastro giallo sul petto. Gaspar e Fernando non ci sono più. Ma sono arrivati Axel e Marta. Nella Boqueria sono spuntati i succhi vitaminici e il cibo bio. Sui marciapiedi sfrecciano i monopattini elettrici. 

La mattina Pere mi aspetta in macchina in Plaça de Catalunya e andiamo insieme al campus di Torribera. Due settimane di lezioni e un libro da finire: dobbiamo farlo per Fernando, che era il terzo autore. Sfioriamo la Sagrada Familia e la Monumental, poi la torre Agbar. Dentro le mura colorate, grazie al cielo e al Parlament, i tori non muoiono più.

Quando scende il buio e i negozi chiudono, in Carrer de la Porta Ferrissa sbocciano gli spacciatori. Nell'appartamento al numero 7, dove il Taller guidava la rivoluzione, ora ci vive Ferran. Raimundo ha lasciato la gastronomia e fa il primario a tempo pieno; per continuare a vivere doveva smettere di mangiare. Quico si è rialzato e ha ricostruito una fabbrica più grande. E poi un'altra più grande ancora, in un vecchio stabilimento tessile, non lontano da Alicia. Ora vuole metterci anche una scuola di cucina, con la sua foresteria. I cuochi continuano ad andare pazzi per la doppia pentola a pressione coreana. Nei ristoranti buoni, l'avanguardia si è trasformata in tradizione. La molecolare adesso è patrimonio comune. Non serve più a far spettacolo, ma per creare piatti sempre più buoni. E tutto questo, per noi, è una cosa meravigliosa.

Il primo decennio del duemila fu un periodo fantastico, irripetibile. Anni di passione, di innovazione intensa e continua. Forse troppo concentrata - diciamo con Pere – ma è così per tutte le rivoluzioni. Non hai il tempo per fermarti a pensare, un impulso irrefrenabile ti spinge all'azione. Ed ora le nuove generazioni si ritrovano una mole incredibile di materiale, da capire, digerire, imparare e reinterpretare. Già, ma chi glielo insegna? Il nostro fu un movimento di autodidatti. Sia i cuochi che gli scienziati non avevano avuto maestri che li guidassero in quei terreni sconosciuti. Ma anche ora non esistono insegnamenti ufficiali. L’accademia è lenta e recalcitrante di fronte a qualunque forma di cambiamento. Il tempo passa. Bisogna darsi da fare, prima che sia troppo tardi…

Una decina d’anni fa tutto si era fermato. Prima la fine di Lo mejor de la gastronomia. Poi la tavola rotonda di Madrid Fusion. La crisi economica. E, dulcis in fundo, la chiusura del Bulli. Era evidente che un’epoca si stava chiudendo. Ma era pure chiaro a tutti che una pausa era necessaria. C’era troppo materiale da elaborare, troppe cose da capire, lasciate indietro per la fretta di andare avanti. Le nuove parole d’ordine diventavano ordinare e classificare. Ferran, che è un pioniere, inizia con Bullipedia. E’ lì che arriva Marta, che è una linguista computazionale. Si lancia con entusiasmo nel nuovo, come avevamo fatto noi anni prima. -Andavamo dove c’era la passione – mi ricorda Pere con nostalgia – e la passione allora non era più nei laboratori accademici, tristi e soffocati dall'inferno burocratico. La passione era nelle cucine dei grandi.

Non scorderò mai quel settembre del 2004 a Murcia, dove ci siamo conosciuti. Il battesimo ufficiale della cucina molecolare. Per andare avevo lasciato perdere, senza rimpianti, uno dei soliti mesti congressi accademici, dove ero invitato a parlare. Vuoi mettere inaugurare la scuola “¿Qué puede enseñar la ciencia a la cocina?” con una lezione su tutto quello che mi stava entusiasmando? Passai l’estate a studiare lo spagnolo. Appena sceso dall'aereo capii che non avrei potuto fare una scelta più giusta. Tutto intorno era elettrizzante. Il tassista mi parlava di innovazione in cucina come da noi si parlava di calcio.  E lì conobbi i grandi amici che avrebbero accompagnato gli anni ruggenti. Pere, Ingrid, Andoni, Dani, Raimundo, Mariana, Fernando…
Fernando. Fernando che non c’è più. All'improvviso, un anno fa. Con quel nostro libro ancora in sospeso. Fernando l’inventore della sferificazione inversa. Quasi nessuno sa che anche quella partì proprio lì, in quei fantastici giorni di Murcia.

Quel libro che era diventato il nostro sogno e la nostra ossessione. Iniziato dieci anni fa, quando anche noi, come tutti, eravamo presi dall'impulso di ordinare e classificare. Raccontare la scienza che aveva guidato la rivoluzione della cucina creativa. Non il solito libro che ti dà la spiegazione di ciò che accade. Un libro che ti insegna come inventare ciò che ancora non esiste. Quante volte abbiamo scritto e riscritto appunti, indici, capitoli. Ma le cose che avevamo fatto in quegli anni, non riuscivamo mai a farle rientrare negli schemi della scienza e dei libri che conoscevamo. Eravamo quasi scoraggiati. Fernando però aveva capito il problema. Non ha senso – diceva – scrivere un libro che parla di idee che stanno già negli altri libri.  Ci è voluto tanto tempo per cogliere fino in fondo il significato di quelle parole. Poi, l’autunno scorso, la nebbia all'improvviso si dirada. Pere ed io ci guardiamo e tutto diventa chiaro. La gastronomia scientifica è semplicemente una disciplina nuova. Che non è in contrasto con le altre, ovviamente. Ma che ha fondamenti e concetti suoi propri, che non si possono ridurre a quelli delle discipline già esistenti. E, soprattutto, ha un fine ben definito: creare il “buono fa mangiare”. Il cammino comincia ad essere in discesa. Il titolo si completa: “Soft matter transformation in culinary processes. The scientific principles of gastronomic design”. E scrivere torna ad essere un piacere.

Sono di nuovo giorni di passione. Al pomeriggio si discute e si scrive. Al mattino si spiega agli studenti e si lima e raffina la presentazione. L’impostazione adesso è quella giusta. Ne siamo sicuri, perché ci ha portato con naturalezza a scoprire strutture nuove. Adesso è tutto chiaro, compresa la transizione di croccantezza nella frolla sperimentale.

La domenica, sul filo dei ricordi, ci allunghiamo a Roses. Cala Montjoi è irriconoscibile. Il Bulli non c’è più. Accanto ai suoi muri, ne costruiscono altri. Il nuovo centro di ricerca di Ferran dovrebbe aprire nel 2020. Non sarà più un ristorante. Il Bulli è storia. Quel che è stato è stato.
In paese, in riva al mare, il Rom è una sorpresa e si torna a sognare. L’alta cucina, quella che ti emoziona, torna a sorridere su quella costa fatale…

Si sente nell'aria uno spirito che sembrava perso nel passato. In quei giorni d’autunno era nata l’idea di riunire la vecchia guardia. È partita la chiamata. Tutti o quasi hanno risposto all'appello. Ferran, Joan, Max, Victor, Carles, Harold, Claudi, Hervé, Jorge, José, Puri…

Ai primi di marzo ci si rivede a Barcellona.

Ricominciamo. 


















venerdì 25 aprile 2014

La cucina delle apparenze



Nella scoppiettante Spagna degli anni ’90, quando tutto era entusiasmo e la crisi non entrava nel lessico quotidiano, uno chef disse a un giornalista:

“Perché non organizzi un evento in cui i cuochi vengono trattati come star?


Nacquero i congressi di gastronomia, dove i cuochi si esibivano in  ponencias davanti ad un pubblico sempre più numeroso ed osannante. Ponencia in italiano significa semplicemente conferenza ed è il termine ufficiale con cui si definiscono le relazioni ai congressi scientifici. Quei congressi, però, erano molto diversi dai convegni di scienziati. Non erano incontri fra un numero selezionato di addetti ai lavori, ma esibizioni di una cerchia ristretta di invitati di fronte ad un pubblico più o meno competente di appassionati.


Se nessuno, fino ad allora, aveva mai pensato di organizzarli, qualche motivo c’era. 
In primis, si suppone che un cuoco debba saper cucinare bene, piuttosto che affascinare una platea di ascoltatori. Certo, quando si sentivano parlare Gualtiero Marchesi, Arrigo Cipriani, o Fulvio Pierangelini era facile restare incantati. Molto più  spesso, svaniva la magia, come quando una fanciulla dalla bellezza eterea, dopo che l’abbiamo a lungo contemplata, improvvisamente apre la bocca e si esibisce in uno show di turpiloquio borgataro. 

Il motivo più profondo in realtà era una altro. Se lo scopo della cucina è preparare piatti buoni, per capire quanto e perché un piatto è buono bisogna assaggiarlo. Ma quando i cosiddetti congressisti arrivano ad essere un migliaio, capirete che il problema si fa serio, sia dal punto di vista logistico che da quello economico. La soluzione ovvia fu presto trovata: i cuochi avrebbero cucinato sul palcoscenico, come già accadeva, di tanto in tanto, in tv. Poi, il fortunato moderatore o giornalista di turno, avrebbe assaggiato per tutti e raccontato.


Sembra semplice, ma non è così. Innanzitutto il palcoscenico non è una cucina e va attrezzato alla bell’e meglio. Poi gli spettatori sono lontani, dunque occorrono telecamera e maxischermo. Praticamente siamo in TV, anche perché, dalla platea distante, i profumi non si sentono proprio. Chi conosce la Tv, sa che è finzione. Bisogna disporre oggetti e persone in modo che siano ben visibili nel quadro bidimensionale della ripresa, sovvertendo l’ordine logico e naturale che avrebbero in una cucina vera. I movimenti devono adattarsi alla telecamera. I tempi, le forme e i colori pure. Se una preparazione è per sua natura lenta, la sia accelera, tirando fuori magicamente da sotto il banco il risultato di ore di “riposo”. In poche parole, vince solo ciò che è telegenico: veloce, colorato, spettacolare. Se il piatto poi non è buono, che importa? Il presentatore, con consumata arte da istrione lo assaggerà, fingendo emozioni e commozione in primo piano sul maxischermo, e decanterà meraviglie inesistenti.


Il piatto, alla fine, è solo un pretesto. Il piatto è immobile davanti alla telecamera; dopo qualche secondo, a vederlo soltanto, annoia. Quello che conta non è più il vero spettacolo gastronomico, che da secoli si svolge in sala, ma piuttosto il suo backstage, che, viceversa, per secoli è stato tenuto en nascosto nell’ombra delle cucine. Questo è il tributo da pagare alla dirompente civiltà dell’immagine, che sta inesorabilmente distruggendo la cultura dei sensi. Il successo del Profumo di Süskind non ha ancora vent’anni e sembra già archeologia.


Negli stessi anni si stava diffondendo internet. Internet per il popolo, intendo. Quella a buon mercato, anzi gratuita, e facile da usare. Fino ad allora lo strapotere delle immagini e degli audiovisivi era limitato dalla complessità e dal costo dei mezzi di diffusione. I filmati si vedevano in tv. Poi improvvisamente arriva Youtube e chiunque può trasformarsi in un’emittente indipendente. L’appassionato va al congresso e pubblica il suo reportage. Senza passare da filtri iperselettivi, come l’iscrizione all’Ordine o il contratto.


Le immagini colorate e veloci dei backstage dell’alta cucina volano e si moltiplicano sulla rete. Ma solo quelle. Vista ed udito sono sensi speciali. Percepiscono onde, non materia. Possono   essere “ingannati”, riproducendo la stessa onda senza bisogno di riprodurre la materia che l’ha generata. Ovvero, posso riprodurre mille copie dell’immagine di un’aragosta, senza comprare e cucinare mille aragoste. Tatto, olfatto e gusto, ahimè, sono più esigenti. Hanno bisogno della materia. Hanno bisogno di smontarla e distruggerla per coglierla, analizzarla ed apprezzarla. Non si accontentano della foto dell’aragosta. In altre parole, le sensazioni olfattive, gustative e tattili non sono riproducibili se non riproducendo l’oggetto che le ha generate.


Risultato: la cucina e la gastronomia acquistano una popolarità senza precedenti ma, nel contempo, vengono lentamente snaturate. I cuochi iniziano a dar più importanza alla tecnica che non al risultato. Il pubblico inizia a dare più importanza all’aspetto visivo dei piatti che al loro sapore.


Si spiega così la tremenda popolarità di tecniche che, dal punto di vista dei risultati, sono decisamente modeste. 

Una per tutte: la sferificazione, che è diventata, negli anni, un’icona della cucina molecolare. Quando Ferran Adrià servì per la prima volta al Bulli il caviale di melone, giocava sull’effetto sorpresa. Chi si sarebbe aspettato che quelle palline arancioni, nella scatoletta metallica del caviale, contenessero succo di melone? Finita la sorpresa, le sferette di alginato ,nella sua cucina hanno sempre occupato un ruolo marginale. Non così nell’immaginario collettivo. Perché la procedura di sferificazione è bellissima da vedere e da raccontare. Vuoi mettere? Davanti all’ingorda telecamera, in pochi secondi ti trasformo goccioline di liquido colorato in sferette perfette. Poi le rompo e ti faccio vedere che all’interno sono liquide… Una manna anche per il divulgatore, che riesce a spiegare con facilità, al profano, una scienza apparentemente lontana e difficile: allungo un braccio e nascondo l’altro per simulare lo ione sodio, poi magicamente allungo tutt’ e due le braccia e mi trasformo nello ione calcio, che prende per mano una catena di alginato di qua e una di là e le unisce in un magico abbraccio… Peccato che in bocca restino semplicissime palline dalla superficie elastica e gelatinosa, riempite di un liquido, più o meno buono a seconda di chi le ha preparate.


L’effetto di questa enfasi sulle tecniche spettacolari non è del tutto innocuo. Vedo aumentare le schiere di giovani aspiranti chef, bravissimi a sferificare, ma incapaci di bilanciare un piatto (ovvio, quello non si trova su Youtube).


Allo stesso tempo, cucinieri e pubblico entrano nell’era dei piatti da mangiare con gli occhi. Piatti che devono essere belli e originali, sennò non finiscono su giornali, video e blog. Ormai non diventi popolare grazie ai clienti che mangiano da te. Quelli sono una minoranza. Quelle che fanno la differenza sono le persone che parlano di te senza aver mai mangiato.  Bisogna tenersele buone e preparare regolarmente piatti telegenici, che possano spopolare in rete e ai congressi. “Ostra Guggenheim Bilbao” e “Interpretación de la vanidad” non sono certo le creazioni migliori di Quique Dacosta e di Andoni Luis Aduriz, ma sono tra quelle che hanno più contribuito a renderli famosi presso il grande pubblico, che frequenta la rete più dei ristoranti. 


Un tempo, si ironizzava sugli sportivi da poltrona, che passavano le domeniche incollati alla Tv. Oggi si sta diffondendo la categoria dei gourmet da display, che sta cambiando la sociologia gastronomica. Su Facebook siamo inondati da foto di piatti, realizzati secondo un’estetica di  maniera, puntualmente seguite da decine  di  commenti più o  meno prevedibili: “Mmmmhhh”, “Che bontà!”, “Da leccarsi i baffi…”,  “Buoooonnooooooo!!!!”.


Ma come cavolo fate a dire che è buonooooo, se non l’avete mai assaggiatoooooo?


Quand’ero studente, ci divertivamo a fare le torte finte, con la segatura, il gesso e il dentifricio. Poi le lasciavamo in giro e ogni tanto c’era qualche pirla che le assaggiava. Il capolavoro fu al matrimonio del mio amico Andrea: una torta di polistirolo, decorata come quella vera, che venne distrutta in sala prima che gli sposi potessero tagliarla. Vorrei recuperare le foto delle vecchie goliardate e pubblicarle, per vedere se qualche “Che buono!” riescono a guadagnarselo…


E’ un dato di fatto che, ormai, viviamo nella società della apparenze. La vecchia saggezza popolare, che ci ha regalato massime come “L’abito non fa il monaco”, “Non è tutt’oro quel che luccica”, "L'apparenza inganna",“The proof of the pudding will be in the eating”, è stata soppiantata dal mondo dei consulenti di immagine e dei guru della comunicazione. Un mondo di mature signore che scambiano il botox per la pietra filosofale; di scienziati che leggono gli indici bibliometrici invece degli articoli; di aspiranti intellettuali che comprano lauree in dubbie università private, dove ti fanno dare anche sei  esami in un giorno; di sgrammaticati che girano con la Moleskine pensando di diventare la reincarnazione combinata di Chatwin ed Hemingway (che peraltro hanno conosciuto solo dalla pubblicità dell’agendina).


Le fotomodelle non sono nemmeno più ossessionate da dieta e palestra: ormai, tanto, si photoshoppano.


E si photoshoppano anche i piatti, perché nella luce vera del ristorante non sono poi così fotogenici. Togliamo quell’orribile tovaglia e le posate. Facciamo il pomodoro più rosso e  la mozzarella più bianca. Ingrandiamo un po’ quel pesciolino, così si vede meglio. Alla fine, nutriamo i nostri occhi di finzioni e, quando andiamo al ristorante, richiamo di restare delusi. Per credere al cuoco, che dice di aver usato la vaniglia, c’è chi vuole vedere gli orribili puntini neri macchiare il bianco candido della crema. A me quei puntini fanno schifo. Mi sembrano escrementi di insetti. La vaniglia e la vanillina hanno aromi perfettamente distinguibili da chiunque le conosca. Se il cliente non è in grado di riconoscerle, allora farebbero benissimo, i cuochi, ad usare una polverina da supermercato, sporcando il piatto con carrube sbriciolate.


E’ stata ancora la Tv a regalare alle massaie italiane l’ultima depravazione. E’ tutta colpa del digitale terrestre, da quando, per soddisfare gli interessi di qualcuno, hanno obbligato un Paese intero a munirsi di decoder. Improvvisamente, aumentano i canali in chiaro. Ce ne sono tanti, molti in stie americano, con trasmissioni brevi e veloci. Su uno di questi, comincia a far capolino nelle sale domestiche il famigerato Boss delle torte, che confeziona in rapidi passaggi, coloratissime torte immangiabili e divertenti per i bambini.

Immangiabili perché, chiunque conosca gli ingredienti che si usano, converrà sulla loro dolcezza stomachevole. Quanto all’estetica, poi, occorre un discorso a parte. Perché, negli ultimi tre secoli, la grande pasticceria ha realizzato autentici capolavori di scultura, lasciandoci trattati, disegni e fotografie a testimoniarlo. Qua invece siamo in puro stile naïf. Ma tanto, tanto. Tanto che, al confronto, l’ultimo dei naïf della Bassa reggiana pare Michelangelo. In compenso, è tutto facile da copiare. Così, schiere di signore appassionate fanno la fortuna dei mercanti, comprando a peso d’oro ingredienti banali e lavorandoli con stampini preconfezionati. In pratica, hanno riscoperto la gioia del Pongo di quand’erano bambine. Purtroppo, il nuovo Pongo è commestibile e, a volte ti invitano a casa. Ah, i cari vecchi tempi in cui, al massimo, dovevi sorbirti le diapositive delle vacanze… Se volete trarvi d’impaccio, vi suggerisco di presentarvi con un vassoietto di mignon della pasticceria più vicina.


Nel Nordovest italico sono ancora popolari degli squisiti dolcetti chiamati Brutti ma Buoni. Che poi tanto brutti non sono. Poi ci sono i malfatti, i maltagliati… Retaggio di una civiltà ormai sepolta? Per carità, non nego che un bell’aspetto fa guadagnare molti punti ad un buon piatto. Ma, se vi chiedessero di rinunciare a due sensi pur di assaggiare un manicaretto strepitoso, quali scegliereste? Ho fatto quest’indagine più volte, nel corso di lezioni e conferenze. Ma alla fine, la scelta ovvia è: vista e udito (e, a me personalmente, riesce comunque molto duro rinunciare ai suoni della croccantezza…). Che poi si possa mangiare al buio è stranoto: da anni, nei paesi tedeschi si è diffusa la catena dei ristoranti Blindekuh, dove potete vivere l’esperienza.


Quindi, dopo aver dichiarato che non sono di quelli che considerano l’aspetto visivo puramente marginale (anzi, ne torneremo, a parlare), sostengo che, attualmente, gli stiamo dando troppa importanza. E, ribaltando i brutti ma buoni, vi lancio qui una provocazione. Creiamo una nuova categoria gastronomica: i “Belli ma ciofeche”. Se mi mandate foto di piatti belli, che si sono rivelati deludenti all’assaggio, mi impegno a pubblicarli in una rubrica ad hoc, insieme ai vostri commenti.



Sempre che non mi consideriate indietro con i tempi, come un vecchio amico che ho rincontrato poco tempo fa. Scopro che è appassionato di gastronomia e ci mettiamo a parlare. A un certo punto, mi dice: “Secondo me, Acurio è meglio di Adrià”. Si aspetta una risposta. Candidamente confesso: “Non posso esprimermi, da Acurio non ho mai mangiato…”. Quello mi guarda come se fossi un extraterrestre. “E che c’entra? Se è per questo, io non ho mai mangiato nemmeno da Adrià!”. “E allora come fai a dirlo?”. “Ma è ovvio: mi tengo aggiornato su internet e sui giornali! Ma in che mondo vivi?”.

Ostra Guggenheim Bilbao


Interpretación de la vanidad

Cake Design










sabato 18 gennaio 2014

Se Aristotele avesse cucinato

Lo zucchero si dissolve lentamente nel miele, nella padella larga sulla fiamma bassa. Il fluido bruno si fa sempre più trasparente. Poi inizia a sobbollire. Fra poco sarà il momento di versare gli struffoli. Mi incanto ad osservare, mentre Roberta ogni tanto mi scansa a gomitate. I piatti del Sud sono cosa sua e in cucina, si sa, la democrazia è fuori luogo: l’unico regime ragionevole è la tirannide assoluta.

Non potendo operare, mi permetto di volare col pensiero ai moti microscopici, all'energia e all'entropia, che si trasmettono dalla fiamma alla padella e dalla padella al miele. Alle molecole del miele, che urtano i cristalli di zucchero e ne rompono l’ordine e l’integrità, creando un miriade di scenari ogni volta diversi. E’ il fascino del disordine, che è vario, molteplice, irripetibile. L’ordine è semplice e banale. Forse per questo l’uomo l’ha sempre inseguito: l’ordine è facile da capire e dominare con la mente. Una chimera da ricercare negli angoli più riposti della Natura, un disegno nascosto da svelare sotto l’evidente caos che ci cattura gli occhi.

Ma, perché gli struffoli riescano, dobbiamo catturare il disordine. Dobbiamo bloccare le molecole, impedendo che si vadano a disporre secondo il disegno ordinato dei cristalli, rendendo la copertura dura, opaca e sgraziata. Il trucco, i pasticceri lo conoscono da secoli; da prima che l’umanità parlasse di molecole ed entropia. Basta che il fluido si raffreddi rapidamente: rallentiamo drasticamente le particelle prima che abbiano il tempo di trovare, andandosene a zonzo, la loro posizione ottimale. Rallentiamo, per carità, non blocchiamo totalmente. Ma, quando la velocità è molto bassa, i tempi si allungano a dismisura. Il miele, si sa, ricristallizza, ma a volte ci mette anni.

Queste cose non si studiano tanto a scuola. Sistemi fuori dall’equilibrio, strutture amorfe… parole un po’ vaghe, che sembrano coniate per esorcizzare la complessità. Poche parole per racchiudere un mondo enorme: gran parte della nostra quotidianità e, praticamente, tutta la gastronomia.

Prima non ne parlava nessuno. Adesso la parola complessità spopola sulle riviste scientifiche e sul web. Ci illudiamo di dominarla con la statistica. Ma alla statistica sfugge il singolo esemplare… Il problema è che, quando mangiamo, il nostro mondo sta tutto in quel singolo piatto e non nella produzione media del ristorante.

Forse non è un caso che pure Trilussa, per scherzare sulle statistiche, prendesse proprio un esempio gastronomico:

“…da li conti che se fanno
seconno le statistiche d'adesso
risurta che te tocca un pollo all'anno:

e, se nun entra nelle spese tue,
t'entra ne la statistica lo stesso
perch'è c'è un antro che ne magna due.”

Però, il fascino della cucina sta proprio qua: nella magia dei piatti che non sono mai gli stessi, anche se lo chef e gli ingredienti non cambiano. Nell'arte del cuoco che, invece di studiare leggi e riassunti campionari, deve intuire ogni volta l’unico e l’irripetibile, ed interpretarlo a vantaggio dei sensi.

Ed è per questo che ogni volta resto incantato a guardare lo zucchero che si scioglie nel miele. Lo spettacolo non è mai lo stesso Ed ogni volta imparo qualcosa. La cucina si impara solo con l’esperienza.

Anche la scienza, a dire il vero, dovrebbe nascere dall'esperienza. Ma la tentazione di imporre al mondo i nostri schemi mentali è antica quanto l’uomo.

Ne parlavo qualche tempo fa con Massimo Montanari, durante un viaggio in macchina breve ma stimolante. Una di quelle occasioni che, dopo giorni di grigiore burocratico-istituzionale, ti fanno riscoprire il piacere di discutere e ragionare. Si conveniva che la scienza moderna fosse molto più platonica che aristotelica. Ovvero, che tendesse a descrivere il mondo secondo idee astratte e preconcette, piuttosto che inchinarsi ogni volta all'empiria. Pensavo a “La scuola di Atene” nelle stanze vaticane. Il vecchio con la barba bianca con il dito verso il cielo alla fine ha vinto. La visione semplice e geometrica ha dominato la scienza e l’Occidente. Ha vinto fin dall'inizio, quando Galileo scriveva: 
" questo grandissimo libro che continuamente ci sta aperto innanzi agli occhi, io dico l'universo,  […]   è scritto in lingua matematica, e i caratteri son triangoli, cerchi ed altre figure geometriche”

Era evidente a tutti che quelle figure geometriche, in natura, sono rare, se non pressoché inesistenti. Sono invece onnipresenti nelle opere umane. Perché sono estremamente più semplici da pensare e realizzare. Disegnare un quadrato non è come disegnare un albero…

Vent'anni prima, il barbaro non privo d’ingegno s’era premurato di mettere in guardia i posteri: 
"There are more things in heaven and earth, Horatio, Than are dreamt of in your philosophy."

Eppure, ci vollero più di tre secoli prima che Mandelbrot osasse scrivere “Le nuvole non sono sfere, le montagne non sono coni, le linee costiere non sono circonferenze, e le cortecce non sono lisce, né la luce viaggia in linea retta.”

Nonostante le buone dichiarazioni di intenti, la tentazione di preferire libri e teorie allo studio umile e diretto della realtà ammalia gli scienziati ogni giorno.

Come nella storia, che vi ho raccontato tempo fa, dei “guru” della complessità che hanno analizzato migliaia di ricette scaricate dal web e ne hanno tratto solenni conclusioni, senza rendersi conto che i cibi cotti hanno aromi diversi da quelli crudi…

Molto  più  di  recente, un’altra analisi di dati ha interessato anche la gente comune, grazie ad una discussione innescata da Massimo Gramellini sulla Stampa. Si tratta di uno studio, di due ricercatori americani, di alcune caratteristiche delle relazioni sentimentali, attraverso le amicizie di Facebook. Gramellini, da umanista, era contrariato dall’approccio e intitolava il suo Buongiorno “Abbasso gli algoritmi”, scatenando sacrosante reazioni dal milieu scientifico. E’ evidente che gli algoritmi, come tutti gli strumenti, sono neutri. Si possono usare bene o male, e questa è responsabilità dello scienziato. Il problema semmai era un altro: quanto si possono prendere sul serio le relazioni sentimentali dichiarate su Facebook? Dove c’è gente che ha dieci profili con dieci fidanzate diverse. O chi, come il sottoscritto, non si è mai sognato di pubblicare il suo stato di famiglia su un social network. In compenso, tra le ragazzine, va di moda dichiararsi sposate con le amiche. Siamo in trepida attesa di un nuovo guru, che ci illumini sul dilagare dell’omosessualità femminile, supportato dagli incontrovertibili dati oggettivi di Facebook…

Guardo lo sciroppo cambiare lentamente di colore e mi chiedo perché osservare la realtà sia sempre meno di moda. Qualche settimana fa i miei studenti mi hanno spiazzato. Non sapevano che le viti, normalmente, si stringono in senso orario. Nessuno, su una platea di un centinaio di persone. - Forse non avvitate mai? – ho chiesto. –No, avvitiamo, ma ogni volta facciamo la prova. - Questa non è mancanza di cultura. E’ la morte dello spirito d’osservazione. Quasi che fosse impossibile dedurre e imparare qualcosa da soli, se non sta scritto sui libri o in rete. E’ il mondo delle casalinghe che non hanno voluto imparare a cucinare dalle mamme, ma pensano di poterlo fare comprando i libri della Parodi, o visitando i blog di ricette.

Un’ora in più passata in cucina vale più di cento libri. Mi torna in mente Pepe Carvalho con i suoi roghi letterari, mentre indugio ancora davanti al fornello, invece di mettermi alla scrivania. 

Lo sciroppo per me ha un fascino particolare. 

Fu la chiave di volta che mi spinse, tanti anni fa, a mescolare più profondamente la scienza alla cucina. Sui libri leggevo che esiste un limite di solubilità dello zucchero in acqua. Se ne aggiungi troppo precipita sul fondo, come il sale.  Ma io, studente gourmet, passavo pomeriggi interi a candire le scorzette d’arancia prima di coprirle di cioccolato e cacao, seguendo una ricetta di Michel Guérard. Poi variavo sul tema: scorze di cedro ricoperte di cioccolato bianco e cocco grattugiato.

Erano gli anni ’80, e la fisica del non equilibrio e della materia soffice non era ancora popolare. Per cui mi arrovellavo il cervello per capire se sbagliavano i libri, o se sbagliavo io a pensare che nello sciroppo la percentuale di zucchero in acqua violava i limiti di solubilità. 

Un giorno, davanti al solito fornello, arrivò l’illuminazione.  

Quando usi lo zucchero comune, i canditi sono a rischio, perché dopo qualche giorno la copertura ricristallizza. Per evitarlo, i pasticceri aggiungevano un po’ di sciroppo di glucosio. Io, che non avevo i mezzi per procurarmelo, ricorrevo a un vecchio trucco casalingo: aggiungevo un po’ di aceto di mele o di succo di limone. Così, abbassando il pH,  si produceva l’idrolisi del saccarosio, che liberava fruttosio e glucosio e mi evitava l’acquisto di ingredienti più “esotici”.  

Tutto era chiaro! 

Lo sciroppo è uno stato instabile, di non equilibrio, che tende, col tempo a riportarsi nello stato cristallino, di equilibrio. Il glucosio allunga i tempi di ordini di grandezza, ma lo sciroppo resta sempre lontano dall'equilibrio. Al contrario, le leggi sulla solubilità valgono solo per i sistemi all'equilibrio. 

Mi si apriva un mondo nuovo davanti. Decisi che avrei sottratto spazio ai teoremi formali, che mi affascinavano tanto, per dedicarmi a questi stati complessi e quotidiani della materia. Ed iniziai la mia tesi sui frattali…

Raccontavo queste cose a Massimo durante il viaggio in macchina e lui mi disse che gli ricordava da vicino la storia di una suora messicana, contemporanea di Newton, di cui aveva parlato nell'introduzione del suo libro “Il riposo della polpetta”. 

Sor Juana Inés de la Cruz era una donna troppo avanti per i suoi tempi. Oggi viene ricordata come la maggior poetessa messicana dell’epoca. Ma era un’intellettuale a tutto campo, che non poneva confini tra scienze umane e naturali, per cui si dedicava a tutto ciò che poteva accrescere la sua conoscenza: letteratura, matematica, astronomia, architettura, geometria, fisica, lingue, musica… E, per ragioni diverse, anche alla cucina. La sua superiora, che considerava quasi diabolico tutto quell'interesse di una donna per lo studio, la puniva spesso allontanandola dai libri e relegandola ai lavori di cucina. Grazie alla superiora ottusa, o forse al vescovo che la comandava, oggi possediamo una preziosa raccolta di ricette messicane del ‘600 che Sor Juana Inés ci ha voluto lasciare. Ma la sua eredità più bella, forse, sta in quelle poche righe indimenticabili con sui suggella la sua “Respuesta de la poetisa a la muy ilustre Sor Filotea de la Cruz” [1] e con cui voglio accomiatarmi:

«E che cosa potrei raccontarvi, Signora, dei segreti che ho scoperto mentre cucinavo? Vedo che un uovo si rapprende e frigge nel burro o nell'olio e, al contrario, si disgrega nello sciroppo; vedo che, perché lo zucchero si conservi fluido, basta aggiungervi una piccolissima parte d’acqua in cui sia stata messa una cotogna o un altro frutto aspro; vedo che il tuorlo e l’albume di uno stesso uovo sono così contrari, che per lo zucchero possono venire usati separatamente ma mai insieme.   Non voglio tediarvi oltre con queste cose insignificanti, che riferisco solo per darvi un’immagine completa del mio carattere, e che, credo, vi faranno ridere;  ma, Signora, che cosa possiamo sapere noi donne se non filosofie da cucina? Aveva ragione Lupercio Leonardo, secondo cui si può benissimo filosofare e preparar la cena. E io dico spesso pensando a tali bagattelle: se Aristotele avesse cucinato, avrebbe scritto molto di più»


Note:

 [1] si tratta in realtà di un’ironica polemica contro il vescovo ottuso, che di nome faceva Manuel Fernández de Santa Cruz