giovedì 25 aprile 2013

Centomani


Finalmente una bella giornata d'aprile. Decisamente primavera. Guido sotto il sole del mattino, lungo le stradelle nascoste della Bassa che, un tempo, divoravo in bicicletta per arrivare al Fiume. Non che ora mi manchino le forze; ma è morta la poesia. La tangenziale e l'Alta Velocità hanno violentato la campagna ed ucciso il mondo magico della mia infanzia. Meglio passare veloci, senza indugiare troppo sui luoghi e sui ricordi. Giungo alla Corte di buon ora. A darmi il benvenuto ci sono due pavoni che si godono i primi tepori sull'argine maestro. Nel cortile, una schiera di fantastici produttori di Emilia e Romagna (unite dalla politica, ma non dalle tradizioni) propongono assaggi di ogni ben di Dio.

Il piccolo regno bucolico di Massimo Spigaroli è già popolato di vecchi amici. Molti compagni d'avventura degli anni eroici dell'avanguardia. Più ‘ogni altra cosa, è il piacere di rivederli che mi ha trascinato qui. Nell'era dello streaming, ai convegni non si va tanto per ascoltare conferenze: quel che conta davvero è parlarsi a quattrocchi, davanti a cibo e vino, e stringersi la mano.

Il primo che incontro è Giovanni Ballarini, ricco d’anni e di saggezza. Ci sediamo a un tavolino a parlare del mio futuro intervento al convegno dell’Accademia. Il titolo proposto mi ha subito convinto.  “La buona scienza”, lo stesso titolo che, anni fa, scelse Olivia Chierighini per uno dei primi articoli che divulgavano al grande pubblico la cucina scientifica. Era stata a Parigi, dove aveva visto esperimenti interessanti, ma al limite del commestibile. A Parma le preparammo un gelato da leccarsi i baffi. La scienza era buona davvero, allora…

Giovanni mi racconta dei risultati di una recente indagine dell’Accademia. Pare che gli italiani, a casa, non cucinino quasi più. Per forza, il poco tempo che hanno lo perdono a guardare i cuochi in tv… Eppure, giuro che, solo qualche anno fa, se qualcuno avesse profetizzato la pasta cotta, condita e surgelata nei supermercati, l’avrei preso per pazzo.

Saluto il Presidente e, non lontano, vedo Davide Paolini. Ottima occasione per discutere del libro che abbiamo in mente. Dopo esserci aggiornati, mi fa notare che parteciperemo alla stessa tavola rotonda.

 –Già – gli dico – mi hanno invitato a discutere di un argomento su cui sono sempre stato scettico e critico… L’analisi sensoriale.-  Mi confessa di pensarla come me. Prendiamo un libricino, che viene distribuito in giro. Dovrebbe insegnare a degustare il formaggio, quantificando le sensazioni. Ci facciamo due risate. 

Sarà che, per deformazione professionale, ho sempre dato molta importanza alla misura e alla sua definizione. Del resto, ci insegnavano fin da matricole che, senza l’operazionismo, la relatività speciale non starebbe in piedi. Pensavo allora a Bridgman che si rigira nella tomba, leggendo la “definizione operativa” di friabilità (numero intero compreso tra 1 e 5, estremi inclusi): “mordere il campione da 2 a 4 volte con i molari e valutare l’aumento del numero di frammenti così prodotti  prima che si sciolgano nella saliva”. 

Una volta, discutendo con un esperto, gli feci notare che, per effettuare una misura, è necessario definire un’unità di misura da poter confrontare oggettivamente con il campione.  Quello mi disse che i numeri , che esprimono l’intensità delle sensazioni, si possono interpretare anche semplicemente come un ordinamento, ovvero una sorta di classifica. Quando gli obbiettai che esistono insiemi parzialmente ordinati, in cui non tutti gli elementi sono confrontabili (aggiungendo che quella era la situazione tipica di misure espresse da parametri multidimensionali), quello mi fissò con uno sguardo semicomatoso…

Davide è ancora più sconvolto dalla richiesta che i campioni da assaggiare siano bastoncini di 1.5x2.0x7.0 cm. Il Parmigiano, a noi, piace mangiarlo a scaglie. Al mercato, il formaggiaio taglia scaglie da ogni forma per farmi scegliere. Perché mai devo assaggiarlo a bastoncini, se già so che così non mi piace? Si obbietta che è per standardizzare la degustazione. Conto obbiezione: a che serve standardizzare, se la degustazione a bastoncino, scientificamente  parlando, mi dice poco o nulla su come sarà l’assaggio a scaglie? Tecnicamente, è come supporre che un integrale definito identifichi univocamente una funzione!

Leggiamo di “laboratori di educazione sensoriale”.  Educare i sensi?  Ma i sensi sono libertà e spontaneità! Tutta la cultura occidentale è una contrapposizione tra sensi e ragione.  Volete inquadrare pure quelli? Che tristezza…  Penso al mio amato Apollinaire:

J’écris seulement pour vous exalter
Ô sens ô sens chéris
Ennemis du souvenir
Ennemis du désir
Ennemis du regret
Ennemis des larmes
Ennemis de tout ce que j’aime encore

Si unisce a noi Enrico Chierici, alias Chichibio. Stesso punto di vista. Decidiamo che alla tavola rotonda faremo outing. Recupero il file della mia conferenza di San Sebastian del 2009. Il tecnico è Gilberto,  un vecchio amico d’infanzia. Gli passo la chiavetta e gli chiedo di proiettare due immagini.  Esordisco con quelle. A moderare c’è andrea Petrini, che a San Sebastian era presente… La discussione è entusiasmante.
Dopo, ci si ritrova a commentare, a capannelli, nel cortile. Si unisce Allan Bay. Mi ricorda che dobbiamo andare insieme a parlare con Daniel Facen. Decidiamo di rimandare a dopo l’estate. 

In giro, i miei vecchi studenti di scienze gastronomiche, che ora seguono un master, sono impegnati a fare interviste e riprese.  Mi chiedono una dichiarazione. In due parole: la scienza può aiutare l’arte, ma, senza talento, non serve a niente…

Tra i culatelli di Massimo, le forme di Parmigiano, le piade, le fritturine, i dolci e i caffè, lentamente si fa sera. Prima della cena, mi eclisso per un poco. Il tramonto sull'argine maestro, per chi è nato e vissuto a pochi chilometri dal Fiume, è una sensazione difficile da condividere e raccontare.

Aperitivo nelle cantine, ad assaggiare quattro stagionature di culatello, tra muri e gallerie di migliaia di culatelli. Un duo d’archi suona Verdi.  Apoteosi della Bassa.

A cena sono accanto a Gigi e Clara Padovani. Accenno a Gigi di un progetto che coltivo a Torino. Gli piace: sarà dei nostri. Dall'altro lato, Enrico Derflingher. Non posso fare a meno di chiedergli consigli, visto che sto per partire per Dubai…

Arriva l’antipasto di Massimo Bottura. Think Green. In bocca, mi emoziona. Non mi capita spesso e, quando succede, avverto la necessità fisiologica di dirlo all'autore  Ma Massimo se ne va prima, perché alla Francescana lo aspetta Martin Berasategui. Nei sotterranei della Corte Pallavicina, il cellulare non prende.

Non importa. Gli mando un sms quando esco, a tarda notte. Il giorno dopo Massimo mi chiama. Parliamo brevemente di quel piatto, con un linguaggio che, forse, capiamo solo noi. Ma quello che ho da dire, si riassume così: “Massimo, chapeau!”.

A buon intenditor, poche parole…





Nessun commento:

Posta un commento